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Accanimento terapeutico o eutanasia?

Una via alternativa proposta da un medico specialista in terapia del dolore

Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l’uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L’uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell’uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco questo senso si manifesta insieme con l’opera dell’amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito santo. Man mano che partecipa a questo amore, l’uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova l’anima che gli sembrava di aver perduto a causa della sofferenza.

Salvifici doloris di Giovanni Paolo II 11/02/1984

Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana

Necessario risulta ribadire come nell’esperienza cristiana acquista importanza rilevante la sofferenza morale, ben altra cosa dal dolore fisico.

La sofferenza racchiude in sé un’energia capace di aprire chi ne fa esperienza all’ascolto, alla ricerca di un senso.

La sofferenza cela nelle sue piaghe un invito per chi ne sente i morsi ad assumere un volto più umano ed umile perché smascherato e liberato da tutti gli orpelli cumulatisi nel tempo che ne impedivano l’approdo al fondamentale.

Tutto ciò per quanto concerne la sofferenza morale.

Molte volte, però, è il dolore fisico o la malattia ad amplificarsi in sofferenza morale ed allora il discorso diviene più complesso, richiedendo un’analisi più attenta del fenomeno.

Vogliamo riflettere partendo proprio dal considerare le disfunzioni sanitarie degli ospedali, cioè di quelle strutture deputate alla cura, alla prevenzione e alla presa in carico di tutte le problematiche connesse alla malattia, per verificare come l’uomo abbia difficoltà ad accostarsi al mondo del dolore sia fisico che spirituale.

Nell’ottobre del 1990, ad Amsterdam, i ministri della sanità della Comunità europea concludevano:

  • L’epidemiologia in Europa registra la crescita esponenziale delle malattie dell’anziano, in particolare le malattie cerebrovascolari, i tumori, le artropatie e la demenza, tutte caratterizzate da decorso lungo e costoso.
  • Le tecnologie sanitarie sono in continuo incremento di qualità, quantità e costo.
  • Vi è una forte espansione della domanda di servizi e prestazioni sanitarie a tutti i livelli.

Da qui la necessità di una riorganizzazione dei servizi sanitari nazionali e degli ospedali.

Nella nostra società, attualmente, sulla scia di quanto già messo in evidenza ad Amsterdam, si assiste ad una frattura tra la potenza dei mezzi diagnostici e terapeutici e la povertà della qualità dell’assistenza ai malati gravi, ai lungodegenti e ai malati terminali. Pur registrando un progresso notevole nella conoscenza degli aspetti psicologici, la paura della malattia resta ancora una delle realtà più difficili da comprendere, perché in sé contiene il concetto di perdita, perdita di un bene essenziale quale la salute e con essa la perdita dell’autonomia e della libertà e persino della sopravvivenza.

Il punto focale è il fenomeno clamoroso della rimozione della morte nelle società occidentali evolute.

Nel 1955 il sociologo inglese G.Gorer, nel saggio “La pornografia della morte”, affermava come il tabù della morte ha sostituito quello del sesso, come tabù fondamentale nelle nostre società.

Il personale sanitario, medico ed infermieristico, immerso in questa cultura, si trova a rimuovere l’idea della morte e dinanzi ad essa sperimentare un senso di frustrazione per lo scacco che la malattia grave e la morte gl’infliggono, come depositari delle tecniche della vita.

Inoltre, il potere di cui è investito il medico in particolare, lo grava di drammatiche decisioni delegategli, quale medico- stregone, dalla famiglia del malato: prolungare la vita o interrompere questo prolungamento, l’accanimento terapeutico o l’eutanasia.

Da ciò si evince come sia complesso il rapporto medico- paziente, infermiere- paziente e medico- infermiere- paziente, in quanto il colloquio che si svolge in tale diade o triade riveste un carattere esistenziale, più che su di un piano pratico come soddisfazione di richieste semplici.

Il coinvolgimento psichico è inevitabile e l’atteggiamento più comune è l’infantilizzazione del paziente, proprio perché la relazione si svolge tra una persona in stato di bisogno, in quanto sofferente sia sul piano fisico che morale, ed una equipe di persone sane, forti, indipendenti e sicure di sé, scomodate molte volte ad interrogarsi, ad identificarsi con l’altro che è malato, povero di salute, che fa un’esperienza di solitudine, sentendosi abbandonato, ma al tempo stesso alla ricerca di solidarietà, di comprensione, di aiuto.

Bisognerebbe offrire un sostegno al corpo, alla psiche e allo spirito, proponendosi come persone, come individui interi in grado di tollerare il carico derivante dalla difficile e spesso dolorosa gestione di un ruolo professionale così complesso e ricco di valenze emotive.

Assistere la persona nella sua totalità e non mostrare un efficientismo ed un’attenzione soltanto al corpo, porre al centro l’uomo come soggetto e non come puro oggetto, come bambino o minus habens da tenere all’oscuro del suo destino.

Essere uomini capaci di offrire umanità, oltre che professionalità.

La peggiore malattia sociale è la mancanza di amore, ma tutto questo nasce da un atteggiamento nevrotico che s’identifica con il debole, il sofferente fino al punto che sembra che la malattia dell’altro limiti la libertà personale.

Quante volte nell’equipe sanitaria appaiono atteggiamenti di rabbia, rifiuto, depressione, di giudizio classificando i pazienti in: seccatori, lagnosi, aggressivi, isterici, scomodi e così via…

Tutto ciò mostra un’incapacità al dialogo, alla comunicazione, a sostenere il confronto con realtà coinvolgenti oltre che su di un piano tecnico su quello esistenziale.

Tutto ciò si rende possibile lì dove si realizza un lavoro di equipe medica ed infermieristica in dialogo, in relazione con il corpo amministrativo animati non da interessi politici o economici, ma da una seria ed attenta valutazione tecnica con l’unico obiettivo di offrire salute, assistenza e benessere.

Non possiamo rispondere freddamente con l’istituzione, con la sola organizzazione ad una realtà così importante e con carattere esistenziale.

Una società industrializzata, lanciata nella produzione, non può assumere un tale modello nell’ambito della salute, dove occorre affetto, partecipazione, condivisione, dove necessitano persone capaci di comunicare, di donarsi

Già Erasmo da Rotterdam nel XV secolo scriveva: Non si accetti chiunque a parlare al malato, ma solo quelli che possono essergli di sollievo.

Da qui scaturisce la necessità di presa in carico del paziente e dei suoi familiari come un’unica unità di assistenza da aiutare, sostenere dinanzi al problema dolore in senso lato.

Bisogna passare da una cultura amputata della morte ad una cultura della speranza volta alla comprensione del significato della malattia, della qualità della vita e della qualità della morte. Soltanto così è possibile non aggiungere ulteriore sofferenza, danno al malato, investendolo con la nostra indifferenza.

Dott. Osvaldo Della Gatta

 

Pubblicato in Temi di riflessione

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