Le relazioni interpersonali

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Negli ambiti più svariati dove uomini e donne s’incontrano accomunati da motivi di lavoro, di preghiera, d’interesse sociale, d’impegno politico, diventa sempre più difficile, nonostante l’alto grado tecnologico raggiunto oggi nel campo della comunicazione, comprendere lo svolgimento delle relazioni interpersonali, che troppo spesso si colorano un po’ tutte di opacità, ambiguità, doppiezza utilitaristica.

Vogliamo riflettere proprio per questo su cosa rappresenti l’esperienza di stare in un gruppo, in una comitiva, in una comunità di persone, in una comunità religiosa, in un collettivo dall’impegno più diverso.
Quale dimensione si sviluppa nello stare insieme in un’associazione?
Quale relazione, in genere, nell’esperienza umana, viene ricalcata vivendo gomito a gomito in vista di un comune interesse?

Un nucleo di persone che, vivendo insieme, matura il senso di appartenenza, di “noità”, del sentirsi affiatati da un ideale di vita, d’impegno, da un progetto condiviso con uno stile particolare, può rappresentare ciò che viene designato con il termine comunità.
Con il termine di appartenenza si sottolinea proprio il non essere estraneo, il far parte di, l’essere dalla stessa parte di altri.
Guardando alla nostra vita, quante volte nella nostra casa non abbiamo sperimentato tale senso di appartenenza, sentendoci estranei?

Quante volte non abbiamo vissuto la famiglia come il luogo dell’accoglienza, della condivisione?

Una proposta di accoglienza e di condivisione genera nuova vita contagiando l’ambiente in senso favorevole. L’esperienza dell’essere con gli altri e del fare per gli altri diventa un modo innanzitutto per maturare aspetti personali e al tempo stesso per stimolare il mondo circostante indirizzandolo verso valori positivi. Molti sono i modi di fare comunità dentro il cristianesimo e fuori di esso, dal momento che uomini e donne per una causa o un’altra danno origine a forme comunitarie le più diverse.

Nell’ambito cristiano, il modello comunitario appare più chiaro in quanto negli Atti degli Apostoli viene descritta l’esperienza dei credenti della comunità primitiva come una realtà di “un cuor solo ed un’anima sola”.
Tutto ciò non va inquadrato come un’utopia cristiana, come un sogno irrealizzabile, che è presente nella Sacra Scrittura, ma che non può divenire realtà nel nostro tempo.
Tale modello affascinante e credibile suona come un invito ad attuare un’esperienza così bella nella vita di oggi, come un incoraggiamento a riprodurre nel contesto sociale attuale una realtà viva ed autentica, capace di coinvolgere totalmente la persona nella sua dimensione relazionale.

Cosa frena la realizzazione di questo ambizioso progetto?

Un eccessivo amore di sé, che Paul Ricoeur, filosofo francese, designa come l’amore difficile, viene ad essere dannoso nei rapporti sociali ed affettivi.
Avvertirsi estraneo al mondo altrui, isolato, indifferente nel rapportarsi alle realtà degli altri genera una frammentazione della persona che perde la propria identità come essere relazionale, sperimentando l’incapacità di intrattenere una comunicazione con l’altro.
L’attenzione all’altro è un atteggiamento affettivo che fa parte di una personalità armonica, solida, libera da condizionamenti, serena, amante di condivisione che vive i rapporti interpersonali senza reprimersi e senza spontaneismi.

La repressione è uno dei classici meccanismi di difesa con cui porre un freno a tutto il mondo in ebollizione dei sentimenti, delle emozioni, delle realtà conflittuali talvolta sgradevoli del nostro cuore. Si cammina paralizzati da una pesante armatura, che si evidenzia con l’ostilità contro se stessi e gli altri.

Lo spontaneismo appare come un fuoco d’artificio, come un fuoco di paglia, senza consistenza; tutto viene espresso senza filtri e senza discrezione, perché animato dall’unico culto della propria libertà, del primato di quanto appare “un bene per me”, che si frantuma rovinosamente dinanzi alle difficoltà e agli imprevisti.

Ciò che è di impedimento allo sviluppo di un gruppo può essere identificato nelle situazioni indicate qui di seguito, riconosciuto nella presenza all’interno del gruppo di alcune personalità devianti perché invischiate ancora nel proprio vissuto personale in maniera pregnante:
• Una persona incapace di sostenere la stima di sé senza ricercarla continuamente nelle attenzioni da parte degli altri. Vive esigendo tributi e lodi ma una volta ottenuti, subito dopo, diventa annoiato e inquieto.
• Una persona dalle relazioni parassitarie e calcolate, spesso mascherate da una facciata di attrazione e simpatia. Manca però la profondità e l’intimità della relazione: c’è il vuoto sotto un grande luccichio emotivo e la tentazione dello sfruttamento è sempre in agguato.
• Una persona priva di sentimenti genuini di tristezza, di partecipazione, di commozione. Vive i sentimenti di rabbia e di rancore come momenti di apparente depressione.
• Una persona piena di risentimenti e intense forme di gelosia inconscia unita a un profondo sentimento di autosvalutazione. Si comporta da una parte cercando l’approvazione continua degli altri, dall’altra sfrutta, disprezza, degrada ciò che gli altri hanno e lui non ha.
• Una persona che vive una girandola di relazioni, ma non è mai soddisfatto da nessuna, per cui si sente sempre frustrato e vuoto.

In un gruppo costituito da personalità caratterizzate dalle note su esposte, con precisi limiti relazionali, si realizza un frutto che è quello della logica del potere, della competizione, della strumentalizzazione dell’altro, con tanta nostalgia di serenità e fraternità.

Appare evidente come la dimensione comunitaria non riesce ad esprimersi per oggettive limitazioni, che non mostrano certo la maturità dei suoi membri: la consapevolezza di sé e la fiduciosa speranza riposta negli altri.
Molte energie sono imprigionate o disperse a causa di ansietà, inquietudini, gelosie, tensioni, paure e rimangono inutilizzate di fronte a problemi concreti che urgono. L’armonia derivante da un leale e sincero scambio di opinioni non risulta tra gli obiettivi del gruppo ormai compromesso da logiche perverse e distruttive, che ne mostrano tutta l’inconsistenza nell’impatto con problemi quotidiani.
Invece, il cammino psicoaffettivo e spirituale maturato nell’esperienza comunitaria in maniera soddisfacente genera una serena e libera convivenza tra gli individui, che si traduce in una efficienza ed efficacia lavorativa qualunque sia l’impegno assunto da ciascuno.

Per contro quali sono le conseguenze verificabili per chi è inserito in una costruttiva esperienza comunitaria?

1. La crescita nell’essere se stessi, nel valorizzare al meglio ciò di cui si dispone;
2. La saldezza interiore congiunta ad una flessibilità, con lo sviluppo della stima di sé senza irrigidimenti;
3. La serenità di fronte alle difficoltà dell’esistenza;
4. La libertà da condizionamenti interni ed esterni, per decidere su ciò che fa vivere meglio dentro di sé e nelle relazioni con gli altri;
5. La fraterna cordialità con chi ti sta vicino, liberando le sorgenti dell’amore e della tenerezza, della simpatia e della comprensione;
6. L’efficacia nel lavoro, con possibilità di maggiore creatività e rendimento;
7. L’apertura verso l’Assoluto che è in noi, nel profondo e al di là di noi, presente per risvegliare l’infinito senza limiti che ci appaga.

La vita comunitaria è una realtà di gioia e di sofferenza al tempo stesso, il nostro vivere quotidiano è spesso confuso e sconvolto da egoismi e tensioni.
Se però ci si dispone interiormente alla realizzazione di una dimensione relazionale proficua, è possibile trovare la strada per maturare la capacità di vivere insieme e risolvere i problemi che inevitabilmente si presentano.

Occorre essere pazienti e infaticabili nella sincera proposta da offrire agli altri di essere costruttori di pace, d’intesa, di dialogo. La finzione, il mascherarsi, il fingere affetti rende infruttuoso qualsiasi tentativo di essere comunità di condivisione, ma realizza pur sempre qualcosa definibile come collettivo disarmonico con forti squilibri emotivi, grosse conflittualità il più delle volte latenti, ma con caratteristiche esplosive.

Si tratta, insomma, di cogliere sempre un frutto o quello dolce “latte e miele” della comunità- unità “ut unum sint” o quello amaro e velenoso della guerra fratricida.

Il Santo Padre in «Novo Millennio ineunte» precisa come diviene necessario proprio dinanzi ad un mondo poco umano che la Chiesa promuova la comunione tra le persone.

Al n° 43, infatti,  invita tutti a:

Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo.

Che cosa significa questo, in concreto?

Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma sarebbe sbagliato assecondare un simile impulso. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come «uno che mi appartiene», per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un «dono per me», oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto.

Spiritualità della comunione è, infine, saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita.

Le esperienze comunque vissute, positive o negative che siano state, non devono rappresentare un freno al vivere con impegno e dedizione le relazioni interpersonali; da un lato c’è il rischio di idealizzare la propria esperienza positiva cristallizzandola nell’immaginario e rimuovendo la realtà che si discosta da essa, dall’altro c’è il rischio di lasciarsi scoraggiare dalle esperienze fallimentari comunitarie chiudendosi in una sorta di pigrizia e di inerzia passiva senza prendere iniziative di armonizzazione. C’è bisogno di un dinamismo nuovo, per determinare impulsi verso l’unità, la condivisione, la comunione, questo, non solo, per rispondere genericamente ad un impegno, ma piuttosto perché ne viene la realizzazione di quella dimensione relazionale che ogni uomo porta racchiusa in sé.

Siamo invitati a non adagiarci nel nostro limite di esseri incompleti, ma ad aiutarci per vivere la nostra vita come persone capaci di completarsi camminando con gli altri.

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