Il rapporto menzognero
Ci sembra opportuno proporre una riflessione su un argomento quello della menzogna in grande auge nel nostro mondo contemporaneo. Viviamo quotidianamente, più facilmente, rapporti di consumo, convenzionali, borghesi, che, in fondo, ci spingono a fare ricorso più alla menzogna, che alla sincerità.
Nella nostra società siamo a contatto con un tipo di linguaggio improntato alla falsità. Basti pensare al linguaggio della pubblicità: ambiguo, assoluto, enfatico; ancora al consumismo che inducendo valutazioni di quantità più che di qualità, condiziona la nostra vita relazionale, ponendoci di fronte ad oggetti da utilizzare, gestire più che a persone da incontrare; al mondo della politica dove la menzogna esonera tutti da un confronto costruttivo, generando nelle coscienze dubbi e sospetti da nutrire su tutto e su tutti; infine, al potere del danaro, esaltato attraverso quiz di grande successo con premi in moneta sonante, lotterie nazionali con vincite da capogiro, e posto come il fondamento sociale, culturale capace di regolare la nostra felicità e, quindi, i nostri rapporti con gli altri.
La menzogna così istituzionalizzata tende a metterci al sicuro da eventuali conflitti e da possibili ferite da infliggere ai sentimenti altrui con una relazione impegnativa, fino in fondo, umana.
La menzogna è la manovra di un momento, che spinge poi, se utilizzata in maniera persistente, all’ipocrisia.
Questa viene condannata da tutti, ma praticata da molti, se non quasi da tutti; più sono le sollecitazioni sociali e più ci si radica in questo stato di quiete relazionale in maniera permanente.
L’ipocrita, nel mondo antico, era l’attore, colui che fingeva sentimenti per motivi di scena. Questo termine, poi, è passato a designare colui che si trova a simulare bontà, pietà, fede, virtù, in effetti sentimenti di benevolenza, mentre, in realtà, nutre nel proprio cuore sentimenti di altro genere.
In fondo, si vengono a fingere affetti, sentimenti nella relazione con gli altri perché c’è un fine da perseguire. Il fine che sollecita l’ipocrita nasce dal bisogno di nascondersi all’altro, per paura dell’altro.
Sfuggire al dialogo leale, schietto, sincero appare possibile per mantenere in piedi una relazione con l’altro mantenuta sotto controllo.
La menzogna, in questo modo, diviene il linguaggio ordinario da impiegare ogni giorno. Ne deriva che non c’è possibilità di comunione nella menzogna. E’ interessante considerare ora come la menzogna possa essere espressa in vari modi. Vi può essere dissimulazione [copertura] che consiste nel nascondere la verità, alterazione, [contraffare qualitativamente] che è un modificare la verità, deformazione, [contraffare quantitativamente] che è un ingigantire o rimpicciolire la realtà, falsità vera e propria [ dire una cosa opposta alla verità] ed infine fabulazione, [invenzione] che è un inventare di sana pianta, da cima a fondo, eventi, circostanze. Perché si scade in un rapporto menzognero? ipocrisia diviene uno stato di vita?
Ciò accade perché ci sentiamo sospettati, ritenuti colpevoli di qualcosa che già la nostra coscienza ci rimprovera; nasce in noi la voglia di ingannare coloro che sospettano di noi. L’ambiente favorisce tutto ciò soprattutto se si nutre di pettegolezzo, se manca di generosità. La logica dell’istante, dell’immediato prevale sulla logica della riflessione, del dialogo che matura nel tempo, della virtù frutto di crescita graduale, bisognosa di tempo e spazio.
Il non sentirsi amati genera una diffidenza nell’incontro con l’altro. Il sentirsi fraintesi, interpretati nei sentimenti può spingere alla falsità nel contatto con l’altro. Si intrattengono rapporti di consumo, fondati sullo sfruttamento dell’altro a propri fini egoistici, utilitaristici. Si genera malinteso legato a falso calcolo; vi è un falso senso rivelatore della realtà, interessato e passionale. Tutto ciò scaturisce da una incapacità di ascoltare l’altro.
Il malinteso si rinforza con l’incapacità di sostenere il dialogo: di fermarsi a riflettere insieme sulle parole dette, di chiarire le cose poco chiare, di chiedere ulteriore spiegazione dinanzi ad affermazioni fuori della portata di chi tenta di capire l’altro, di chi vuole addentrarsi in un mondo diverso dal proprio.
In chi è avvezzo al malinteso le parole vengono affrettatamente percepite, intuitivamente recepite secondo uno schema di pregiudizio personale. In fondo le parole sono un pretesto per verificare quanto già è stato, nella mente, elaborato mediante una fine opera di manipolazione, interpolazione, interpretazione, immaginazione. Si vive di malintesi, perché si è rinchiusi in un proprio mondo ideale, dove conta il proprio pensiero personale, il proprio desiderio, la propria visione esistenziale.
Chi è solo, si nutre di malintesi, elabora fraintesi senza alcuna possibilità di integrarsi con il mondo circostante. La sofferenza è una dimensione personale, ed appare come l’unica realtà capace di farci assumere un atteggiamento leale. La finzione si arresta a contatto con il dolore. Il frainteso resta schiacciato dal peso del disagio esistenziale, che scaturisce dalla sofferenza.
La sofferenza smaschera qualsiasi ipocrita atteggiamento, ha la capacità di metterci a nudo, di svestirci di tutti i possibili travestimenti assunti per sfuggire al confronto leale con gli altri, ci pone in una condizione di povertà, di nudità esistenziale. Quale sequela di malintesi nel silenzio imbarazzante e nelle parole equivoche! Dove non c’è assolutamente spazio per il dialogo costruttivo, per il confronto leale alligna il vento della follia e il genio della confusione.
Spezzare il rapporto menzognero diviene possibile, diviene necessario se il nostro desiderio si schiera dalla parte della verità.
Non morirete affatto! L’affermazione del serpente riecheggia in ogni esperienza come il programma operativo da seguire costantemente senza alcuna possibilità di revisione. L’inganno del maligno diviene principio ispiratore del nostro agire morale. La menzogna primordiale pronunciata nel paradiso terrestre spinge Adamo ed Eva a credere a tale affermazione mangiando il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Da ciò è derivato il peccato originale per ogni uomo che vive sulla faccia della terra. Il peccato originale rinchiude l’uomo nella solitudine e lo conduce ad una paura della morte tale che lo porta ad aggredire l’altro per salvare se stesso. L’uomo si dedica ad edificare se stesso incurante dell’altro che non vede più come un essere con cui entrare in relazione, ma come un aggressore, come un denigratore, come un nemico da cui difendersi, perché attenta alla sua realizzazione. Si relaziona con le cose, non più con l’altro.
Si realizza una dicotomia tra mente e cuore, tra spirito e carne; l’uomo non è più unità, ma frammentarietà, realtà spezzettata, divisa in schegge impazzite alla ricerca di soddisfazione, appagamento, piacere. Tutto ciò che in qualche modo ha sapore di contrasto, mette in fuga l’uomo rinnovando in lui l’esperienza di morte ontica sperimentata nel paradiso terrestre; tutto ciò che richiama divisione, scelte lo trova paralizzato, incapace di determinarsi, perché evoca lo smarrimento della fuga tra gli alberi per nascondersi all’altro.
La menzogna diviene allora la scelta di vita, il modo concreto per attuare quest’opera di nascondimento, di fuga, di mascheramento. Il Vangelo di Giovanni asserisce nel capitolo ottavo, riportando le parole pronunciate da Gesù in dialogo con i giudei:
«Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin dal principio, non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (GV 8,43-45).
La menzogna uccide l’altro, soffoca la vita, distrugge l’amore. Impedisce, insomma, che una relazione possa svilupparsi nella direzione dell’amore. Il rapporto d’amore, per eccellenza, tra l’uomo e la donna si macchia di inganno, diviene menzognero. Possiamo, così, quasi riconoscere una falsità di genere. Le menzogne femminili consistono nel fingere emozioni che non si provano, oppure nel simulare livelli di vulnerabilità emotiva e dipendenza che non corrispondono al vero. Le menzogne maschili consistono nel non mostrare fino in fondo il proprio sentire per sfuggire al confronto o per evitare di assumersi la responsabilità. Gli uomini imparano a mentire per avere più potere. (la virilità viene fatta coincidere con la forza e il potere). In una sorta di infantile valutazione il piacere e solo il piacere diviene la lente attraverso cui guardare la realtà. Il pensiero di base è che tutto nella vita non è più dono, ma un debito contratto con l’avere sottratto qualcosa che ci veniva negato per vivere. La felicità è qualcosa che va rubata con inganno; la vita è per i furbi, per coloro che sanno approfittare dell’altro, sanno sfruttarlo. Si fa strada così l’affermazione di sé e la relazione si blocca, divenendo capacità di dominio sull’altro e facendo assaporare solitudine, vuoto esistenziale, insoddisfazione profonda.
La vita diviene affanno, sudore, furbizia, utilità, profitto, slealtà. Tutto si traduce in un peso terribile che toglie speranza, fiducia, giustizia, lealtà riducendo l’esistenza ad un infelice peregrinare senza meta, dove tutto è dolore che schiaccia.
La felicità, invece, è nel percepire la vita come dono, la relazione come dono. Soltanto, così, la menzogna perde di consistenza, impallidisce dinanzi all’armonia derivante da una sincera relazione. La vera medicina del malinteso è di ordine morale; la sincerità fa sì che salga fino alle labbra ciò che era depositato nel cuore come risentimento. Tutto è semplice se c’è il cuore, altrimenti non c’è nulla. Se non c’è il cuore tutto suona falso, inappropriato, inadeguato, convenzionale, di cattiva lega. Per i perfidi tutto è perfidia.
La benevolenza ispira saggezza, intelligenza nel cuore, soprattutto, dispone ad un atteggiamento di apertura verso l’altro. Lì dove c’erano durezza, broncio permanente, sbirciate ostili, freddezza, incomunicabilità o comunicazione menzognera, un cuore di pietra, frutto della follia e della malvagità degli uomini, si genera, con il disgelo operato dalla benevolenza, un cuore di carne, capace, cioè, di entrare in una sincera relazione con gli altri.
Ecco l’inverno è passato,
è cessata la pioggia;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire.
dal Cantico dei cantici 6, 11-12
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