La difficoltà nei gruppi

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Troppo spesso, nei nostri contatti sociali, nelle nostre adunanze umane, appare evidente l’ambizione da parte di alcuni ad assumere un ruolo di capo gruppo o leader.

In ambiti lavorativi il ruolo di leader può essere vissuto in maniera disfunzionale.

La ricerca del potere racchiude in sé molto spesso una particolare motivazione collegabile ad una funzione compensatoria dinanzi a conflitti non risolti dentro di noi. Ad esempio le esperienze infantili insoddisfatte, dovute a scarsi riconoscimenti o ad eccessive richieste da parte dei genitori, generano quel senso di insicurezza, inadeguatezza, a cui il semplice aggregato si rassegna, mentre il leader tenta di superarle mediante un impegno improntato all’eccesso per riuscire ad avere consenso, attenzione ed affetto che gli sono mancati da fanciullo. Nel leader diventa una necessità coatta il comparire, il farsi vedere per riscuotere successo, approvazione per compensare quella scarsa stima di sé, che avverte e rimuove al tempo stesso per sopravvivere.

L’impalcatura del potere, del successo sostituisce quella ricerca di identità mancante nella vita del leader, spingendolo a cercare nel riconoscimento esterno il rimedio all’angoscia. Il leader ha un sogno da attuare e vive nel bisogno di attuarlo, e quando non riesce a realizzarlo, alla delusione collettiva per la mancata attuazione, quasi sempre  aggiunge la violenza distruttrice vendicandosi per un sogno tradito, identificando in qualcuno il nemico da annientare.

Più facilmente, proprio perché il leader è condizionato nei comportamenti a compensare l’autodisistima vive di dipendenza cieca e assoluta dagli altri, dai consensi. Vive, inoltre la cosiddetta alessitimia, cioè incapacità ad esprimere i propri sentimenti, la sterilità emotiva, la monotonia delle idee, un vero e proprio impoverimento dell’immaginazione. Privo di capacità empatica, presenta inoltre indifferenza e freddo distacco che non sono espressione di padronanza delle situazioni, quanto di gravi difetti di comunicazione e di mancanza di qualità umana nelle relazioni e negli amori. Risulta in seno ad una organizzazione di tipo lavorativo il personaggio ideale perché non avendo una vita interiore, è più idoneo a rivestire un ruolo di comando essendo utilizzabile come pedina  piuttosto che come persona.

Molti leader, oggi, nella nostra società, in posizioni di comando, rispecchiano una siffatta personalità fragile che certo non è di aiuto alla crescita della comunità umana.

Da un lato c’è, quindi, il leader con la sua condizione di comando da mantenere a tutti i costi, dall’altro il gruppo, che si ritrova a vivere disagi relazionali come ricaduta immediata ad una tale impostazione disfunzionale.

Da registrare in prima istanza è la perdita di un linguaggio comune. C’è fatica ad intendersi, viene a mancare il confronto in quanto il linguaggio è falsato, è condizionato dalla ricerca del potere da parte del leader, mentre dalla parte dei seguaci c’è la preoccupazione di risultare graditi al capo in maniera molto personale. Così una volta caduto il gruppo in tale gioco  d’interessi  individuali, si perde un linguaggio comune e ci si ritrova da soli, come singoli.

Certo si può fare ancora molto come singoli individui, ma il gruppo vive con difficoltà la dimensione  d’insieme e quella comunitaria che è frutto di un’armoniosa convivenza con tutto il carico di imperfezione che caratterizza gli esseri umani.

Se lanciamo uno sguardo a quanto può realizzarsi in un contesto  ecclesiale, dove la figura di leader appare molte volte sbiadita, ci rendiamo conto che sono gli alti ideali a fare da guida nel gruppo.

Gli alti ideali, se da un lato risvegliano la vita stimolando coloro che partecipano ad una comunità  ad uscire da un meschino orizzonte borghese, dall’altro possono far perdere il contatto con la realtà, determinando una sorta di scissione psichica.

Tale scissione si presenta nell’atteggiamento di coloro che agiscono rimuovendo la loro realtà fragile. Questi si identificano con l’ideale proclamato  e non vedono l’ aggressività che si nasconde dietro la loro religiosità. La scissione consiste appunto in questa inconciliabilità dei due piani, quello dell’ideale e quello dell’aggressività, portando a proiettare negli altri le proprie passioni rimosse. Per attenersi all’ideale si rimuovono le proprie zone oscure, proiettandole in altri contro i quali si scarica tutta la propria indignazione.

La rimozione del male che è in noi porta alla demonizzazione degli altri che in nome di Dio vengono trattati con asprezza, con disprezzo, con malvagità, rimproverando ogni comportamento che non appare consono.

Perché si attui la trasformazione accogliendo anche l’ombra che inevitabilmente è in ognuno di noi, è necessario che gli alti ideali, giustificati all’inizio di un’esperienza religiosa, atterrino poi nella realtà esistenziale, mano a mano, progredendo nel cammino di fede, altrimenti, si rischia di vivere una vera e propria patologia di scissione sul piano psichico.

In  parole povere, è necessario uscire da un idealismo spirituale per incontrarsi con una realtà umana molto fragile. Perché si attui una dimensione comunitaria nel rispetto dello spirito di quanto viene annunciato e proclamato, c’è bisogno di accogliere anche la propria debolezza e metterla a contatto con la realtà degli altri per far sì che sia la grazia e non lo sforzo personale, intriso di rabbia, di giudizio, di mormorazione  a trasformare la realtà di fragilità che ognuno porta dentro di sé, rendendola condivisibile.

Si tratta di maturare uno stile di vita dove non si ha vergogna di riconoscersi deboli e bisognevoli di aiuto. Soprattutto si raggiunge un comportamento dove si è liberi da ogni ambizione  che cerca di pervertire la spiritualità in una prestazione.

Tutto ciò può costituire il terreno predisponente allo sviluppo, in alcune persone,   di comportamenti  definiti con il termine generico di “abuso” di cui parleremo in un prossimo articolo.

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