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Abuso spirituale

Dopo l’articolo “la difficoltà nei gruppi”, che esamina gli aspetti dell’abuso soprattutto in un contesto sociale,  accennando, nelle battute finali, a quanto si può verificare in un ambito ecclesiale, osserviamo più da vicino come si possano realizzare condizioni di abuso in  una comunità religiosa desiderosa di condivisione e di tradurre in vita quotidiana le proposte dell’annuncio cristiano.

L’abuso spirituale si realizza specialmente in un ambiente dove si vivono forti ideali.

Gli  alti ideali impediscono di guardare la realtà di povertà che ognuno porta con sé, per cui si registra nella comunità religiosa così impostata una seria difficoltà alla crescita spirituale.

E’ ambiente fortemente ideologico quello in cui ogni progetto di vita viene esaltato con immagini archetipe.

L’ubbidienza, necessaria allo sviluppo di ogni contesto religioso, diventa rinuncia alla propria volontà.

Ogni critica viene vista come attacco all’unità.

Ogni opposizione alla guida spirituale come ribellione a Dio stesso.

Viene sottilmente imposto un adattamento compiacente alla volontà di chi guida il gruppo. Entrare nelle grazie del capo diventa il massimo impegno da compiere.

Allora la fisionomia che assume il gruppo religioso è ben diversa da quella legata al progetto iniziale di rinnovamento per ritrovarsi ad essere quella di un gruppo insipido, che non esprime, certo, alcuna creatività nello spirito, ma piuttosto l’adeguamento ad uno schema dettato, imposto dalla guida spirituale.

L’abuso spirituale appare come una chiara incapacità ad accogliere il nuovo e, quindi, ad  avere un cambio di mentalità dinanzi agli eventi che si svolgono intorno.

Appare, inoltre, come un meccanismo di difesa per contenere un fenomeno comunitario  che, nella sua spontaneità, uscendo da schemi precostituiti, convenzionali suscita disorientamento richiedendo aperture, dialogo, maturazioni, adattamenti che non sempre la guida spirituale è disposta a vivere.

Non avviene un adeguato inquadramento  dell’autorità e dell’obbedienza.

Una conseguenza ancora dell’abuso spirituale è  l’incapacità di elaborare l’esperienza di fallimento che inevitabilmente si sperimenta in qualsiasi contesto umano. Si può definire in termini psicologici come la mancata elaborazione del lutto.

Si utilizza un tale termine “lutto” perché collegato all’idea di perdita.

Il fallimento, in fondo, si collega ad una condizione di perdita, come perdita di obiettivi da raggiungere, di risultati da conseguire, di aspettative.

I sistemi autoritari rifuggono dal lutto, non danno spazio alla rilettura di eventi spiacevoli accaduti nella comunità. Appare come se tutto debba funzionare secondo un copione di artefatta armonia, per cui non c’è spazio per una rielaborazione del lutto che passa dall’esternazione di sentimenti come dolore, rabbia, risentimento, ribellione.

Questa incapacità di soffrire porta all’immobilismo e alla sterilità sociale. Si sviluppano limitazioni nella percezione della realtà e pregiudizi fondati su stereotipi, per cui si tende a nascondere, a non parlare apertamente di fatti e persone mascherandosi dietro una facciata di perbenismo.

La cattiva vergogna ci spinge a coprirci.

In una comunità religiosa, invece, aperta al dialogo si potrebbe discutere, in un incontro comune, delle esperienze occorse, come dell’abbandono da parte di qualcuno dei suoi membri, cercando di scoprire che significato ha avuto per ciascuno quanto vissuto mettendo in luce dove non si è stati capaci di comprendere l’altro.

Possono venir fuori: sofferenza, disagio, rabbia.

Solo se una comunità affronta tale riflessione di elaborazione  del lutto/fallimento riesce ad essere trasformata e rinnovata.

Si tratta di non mettere pietre sopra le situazioni spiacevoli o di nascondere la testa sotto la sabbia, ma di affrontarle con coraggio e determinazione, come viene suggerito dal monaco benedettino Anselm Grun dell’abbazia di  Münsterschwarzach in forza della sua esperienza di recupero di situazioni di abuso spirituale.Il tema centrale del lavoro teologico di padre Grün è la ricerca di una sana spiritualità. «Alcune forme di religiosità    creano nevrosi e fanatismi, non solo nel Cristianesimo, ma anche in altre religioni. Per San Benedetto da Norcia, il fondatore dell’Ordine dei Benedettini, un aspetto della spiritualità sana è avere un cuore aperto».

Un cuore che spinga quindi all’apertura, alla tolleranza e all’empatia va favorito e incoraggiato in un contesto di gruppo cristiano, dove l’obiettivo non è giudicare ma comprendere la realtà sociale e le persone.

Senza processo del lutto la comunità diventa immobile e rigida.

Sposterà le aggressioni all’esterno, sull’immagine ostile di chi se ne è andato, cercherà un capro espiatorio, una persona da vedere come il responsabile di tutte le situazioni negative.

Si diventa incapaci di affrontare i problemi.

Ci sarà insicurezza, oppure, enfatica astrazione dell’esperienza religiosa.

Il fallimento, invece, interroga la comunità, che può reagire o con la rimozione psicologica, che può tradursi nell’espulsione di quelli che sono ritenuti colpevoli, con conseguenti profonde lacerazioni al suo interno, o con l’affrontare le difficoltà del momento assicurandosi un futuro per crescere e maturare.

Il vangelo di Matteo, in diversi punti, sottolinea con forza ciò che Gesù pensa in merito all’abuso spirituale dei farisei, i quali pongono fardelli sulle spalle degli altri, fardelli che essi stessi si guardano bene dallo sfiorare con un dito.

Appare interessante come tutto questo abbia costituito nella chiesa primitiva una prassi fondamentale perché apparisse tutta la bellezza della creatura nuova rinnovata dallo spirito di Gesù Cristo.

Così la prima lettera di Pietro sottolinea quanto sia facile e possibile  che si realizzi la conduzione della comunità da parte delle guide spirituali con dispotica arroganza, coltivando un vile interesse legato a beni materiali e alla ricerca di prestigio, spadroneggiando sulle persone.

Ci può essere chi indossa una veste falsamente splendente per compensare la malvagità interiore, che esercita sugli altri come abuso spirituale.

L’autorità della chiesa, della comunità religiosa è anzitutto l’autorità dell’esempio.

Dove abita la divinità? Non in un tempio di pietre, che  il mondo pagano ben conosceva, ma nell’uomo vivente.

Vieni e vedi.

Amatevi coi fatti e non a parole.

Tutto questo appartiene all’annuncio del cristianesimo; fa parte dello stile di vita del cristiano.

Il cristiano è per definizione un “essere con”, non un individuo, ma una persona in comunione, in relazione sana con gli altri.

La necessità della relazione con gli altri non è un comandamento, una prescrizione, ma costituisce la natura stessa del cristianesimo.

La comunione, la comunità non sono un qualcosa in più, una realtà che può esserci o meno, un optional;  piuttosto fa presente l’amore di Dio tra gli uomini.

La comunione è una nuova modalità di esistenza, dove interviene la logica del dono a Dio e ai fratelli, per cui non c’è spazio alcuno per sottili macchinazioni o strumentali manipolazioni.

Pubblicato in Temi di riflessione

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