Diffidenza ed aggressività

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Gli altri ci deludono perché in fondo abbiamo un progetto nella nostra relazione con gli altri.

Gli altri vengono molto spesso utilizzati per il raggiungimento di una nostra finalità, li coltiviamo fin tanto che possono rispondere alle nostre aspettative.

Quando, poi, per un motivo o per un altro, si mostrano di intralcio alla  realizzazione del nostro progetto, allora non riusciamo ad accettarli, ci fissiamo sugli aspetti negativi, sottolineandone i momenti di difficoltà, che, in una relazione, inevitabilmente si realizzano: incomprensioni, fraintesi, disattenzioni. Anzi gli aspetti negativi ci servono per potere affermare la nostra ragione, per poter dominare l’altro ponendolo su di un piano d’inferiorità.

Un rapporto così condotto ci fa cogliere come l’altro fosse utilizzato prima, quando le cose sembravano funzionare in maniera armoniosa, ed anche dopo nel momento in cui la relazione ha assunto una piega non buona.

Ci sembra interessante riflettere sui motivi per cui si realizza nel contatto con gli altri una tale crisi relazionale che se, da un lato, ci fa cogliere tutto il limite del nostro stare insieme, dall’altro, ci fa assaporare quanto sia difficile intrattenere con gli altri rapporti autentici, costruttivi.

In chi fa esperienza di un tale limite può instaurarsi una chiusura, una sorta di sfiducia permanente nei confronti degli altri oppure una forma di aggressività che si traduce nel sottolineare solo e sempre i punti deboli degli altri.

Diffidenza e aggressività  diventano atteggiamenti di difesa che esprimono, in fondo, la  paura di entrare in relazione mettendosi in gioco totalmente.

L’io si trincera in uno steccato artificioso per potere in qualche modo sopravvivere nel confronto con gli altri.

Fino a quando ci rapportiamo gli uni gli altri in questo modo, le persone vengono inquadrate come personaggi da definire, etichettare, catalogare, manipolare affibbiando ruoli da rivestire.

Fin tanto che facciamo dell’altro un personaggio, cadiamo o nell’invidia che si consuma all’interno dell’io oppure nel giudizio spietato che non offre possibilità di redenzione. Ognuno si relaziona agli altri come ad oggetti da possedere, come a pedine da utilizzare, ma non di certo come a persone con cui intrattenere un dialogo costruttivo.

Qui si tratta di vedere negli altri l’aiuto che mi è simile e che mi è stato donato da Dio per dare vita ad una comunità di persone  da cui imparare , trarre insegnamento, arricchirsi.

La nostra società rende difficile vedere il prossimo nella sua trasparenza, proprio perché ci relazioniamo agli altri come a personaggi di una rappresentazione dove la logica dominante è la funzionalità, l’efficienza dei rapporti senza conflittualità.

La conflittualità genera emarginazione.

La vita scorre nell’innalzare palizzate tra noi  e gli altri.

Quante barriere abbiamo nella nostra vita?

Quante diffidenze nutriamo nei confronti degli altri?

Più anni abbiamo sulle nostre spalle e più steccati abbiamo innalzato.

Uno stile di vita così condotto non può portare se non a ritrovarsi soli, immersi in una solitudine esistenziale, dove gli altri assumono il ruolo di nemico da cui difendersi, guardarsi, perché ci soffoca e ci toglie la vita.

In questo modo più che maturare, crescere vedendo negli altri un volto umano entriamo nel circuito perverso  di sentirci come in un campo di battaglia aggrediti, incompresi, emarginati.

Riconoscere un volto umano agli altri ci porta a vedere nel nostro prossimo pregi e difetti e non solo difetti.

Significa scorgere un profilo che è simile al mio nei suoi tratti fondamentali.

Significa vivere la vita non classificando gli altri, in maniera infantile, in buoni e cattivi.

Significa non cercare  a tutti i costi il punto debole dell’altro per poterlo avere in pugno, per poterlo dominare, ricattare.

Significa non inquadrare gli altri distinguendoli in chi mi è amico e in chi mi è nemico.

Tutto questo diventa possibile realizzarlo nella nostra vita.

Basta far posto nel nostro cuore ad un amore che va ben oltre i nostri limiti, i nostri piccoli orizzonti.

Basta cogliere l’invito di Gesù: “Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati” [Gv 15, 12].

Il tipo di amore a cui Gesù ci invita include non solo il prossimo che ci piace  e ci è amico, ma anche il nemico.

Alla luce di una tale proposta la nostra capacità affettiva va rivista proprio perché non sa passare all’amore di cui parla Gesù.

Il nostro limite appare chiaro perché vive nei confini dello scambio relazionale e non del dono.

In fondo, lì dove c’è un interesse da coltivare qualsiasi scambio entra ad un certo momento in crisi; si usura, si logora perché vive d’inerzia, di cose scontate, di routine inappagante, di schematismi, automatismi che si adattano più alla vita di una macchina che alla vita di una persona. Gesù ci invita ad essere persone capaci di amare come lui ci ha amato.

E’ venuto sulla terra per aiutarci in forza del suo spirito ad amare il nostro prossimo al di là delle nostre aspettative, dei nostri desideri, dei nostri bisogni; è venuto per aiutarci ad andare al di là del nostro orizzonte di consumare le relazioni soltanto nella mutua compatibilità, nell’intesa culturale, nell’attrazione sessuale, nelle affinità delle reciproche sensibilità, in fondo alla ricerca di noi stessi, preoccupandoci soltanto di stare bene.

C’imbattiamo in questa incapacità di amare perché nel nostro cuore c’è il desiderio esistenziale di attenzione, affetto, autorità, potere.

Vogliamo essere considerati, riveriti, rispettati.

Non possiamo accettare di essere messi in discussione, di sentirci rifiutati, di non essere considerati.

Questi bisogni nascono dalle nostre profonde ferite affettive e sembrano non trovare mai appagamento.

Se guardiamo con attenzione la vita degli altri, scorgiamo le stesse ferite profonde, scorgiamo come tutta l’umanità è incatenata da una siffatta catena di ferite e bisogni.

Anche dinanzi alle migliori intenzioni per non incappare in una tale sequela di ferite, non possiamo fare a meno di incontrare gente che si sente respinta, fraintesa o ferita da noi.

Non basta la nostra buona volontà.

Nella nostra umanità preferiamo far passare per amore una sorta di scambio, preferiamo contrabbandare l’affettività per amore utilizzando di fatto nella vita espressioni come:

“Ti amerò se mi amerai; ti darò se mi darai; ti parlerò se parlerai…….” Oppure espressioni come:

“Fa questo e andremo d’accordo; ti sarò amico se farai così; ti accetto se non mi dici di no……”

Il vangelo ci libera da questa catena, rivelandoci un amore incondizionato che è quello di Dio per ognuno di noi.

Questa è una buona notizia per ognuno di noi.

Questo amore manifestato in Gesù non si esprime come sopra, si dona incondizionatamente ad ogni creatura.

Non viene a ricattarci, ad affermare la sua superiorità.

E’ benevolo verso gli ingrati ed i malvagi” [Lc 6, 35]

Questo è il grande e meraviglioso mondo che si schiude dinanzi ad una umanità schiava delle proprie affettività, bloccata dalle ferite affettive e dai bisogni, incatenata  dall’egoismo.

In forza del mistero del Dio fattosi carne per vivere in mezzo a noi è offerta la possibilità ad ognuno di noi di passare all’amore pieno che è dono all’altro come lui ci ha amato.

In Gesù è Dio stesso che partecipa alla nostra afflizione, alla nostra angoscia, al nostro dolore e ci invita a camminare con gli altri, nonostante tutto, perché la sua stessa natura è relazionale.

Dio è relazione di persone.

 

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