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Sensi di colpa

Il mettere una pietra sopra le realtà spiacevoli vissute, non aiuta certo a vivere l’oggi, ma anzi favorisce i sensi di colpa, perché al passato rimosso viene conferito autorità sull’oggi, rinforzando le paure che inevitabilmente sono dentro ognuno di noi.

Permettiamo a memorie rimosse di divenire forze indipendenti che esercitano un effetto paralizzante sul nostro modo di essere, di relazionarci agli altri, di vivere anche una dimensione spirituale, di pregare.

Dimenticare il passato è alienarci il nostro maestro più intimo. E’ garantirci che non riusciremo a trovare la via che porta alla fiducia e alla speranza.

La capacità di ricordare, quindi, vagliando i ricordi, anche quelli dolorosi, incide sul nostro futuro.

Molte volte, invece, lottiamo per liberarci in qualunque modo dalle nostre sofferenze vissute, dalle nostre esperienze dolorose.

Una parte di noi preferisce l’illusione che le nostre perdite non siano reali, che si tratti di interruzioni temporanee. Di conseguenza sperperiamo molte energie nel rimuoverle. Ci buttiamo, ad esempio, nell’attivismo, nel preoccuparci di cosa fare, persone da incontrare, impegni da portare a termine, affari da realizzare.

Un’altra possibilità, per non guardare in faccia la realtà con tutti i suoi risvolti belli e brutti, è il trincerarsi in una corazza di impenetrabilità, non lasciando spazio  al dolore.

Crediamo che tutto ciò che ha il sapore di sofferenza sia da scartare come cosa non buona per la nostra vita. Amiamo le vittorie facili: crescite senza crisi, guarigioni senza sofferenze, la risurrezione senza la croce.

Gran parte di ciò che ha davvero senso e valore si ottiene solo a prezzo di un onesto confronto.

Soffrire ci avvilisce.

La sofferenza ci rammenta la nostra piccolezza con straordinaria efficacia.

Suddividiamo il nostro passato in esperienze positive da ricordare con gratitudine ed esperienze negative da accettare con rassegnazione o dimenticare.

Questo atteggiamento che può apparire del tutto naturale a lungo andare ci impedisce  di guardare a tutto il nostro passato come la fonte da cui alimentare il nostro futuro. Ci imprigiona in un miope avvitamento sulle nostre esperienze proficue o gratificanti.

La ricetta della felicità sembra quella di seppellire i brutti ricordi nei meandri della coscienza e pensare solo alle cose belle che ci gratificano.

E’ necessario un impegno non indifferente per riabilitare tutto il passato e vederlo come il modo concreto che mi ha formato e mi ha fatto arrivare fino ad oggi.

Bisogna affrontare non solo le ferite recenti, ma le passate esperienze di rifiuto, abbandono, fallimento o angoscia.

L’immagine del vangelo di Giovanni della vite e i tralci ci aiuta a cogliere l’opera necessaria perché si porti frutto. Giovanni parla di una potatura da effettuare perché la vite dia più grappoli. Potare significa troncare, riformare, rimuovere ciò che sottrae vitalità.

La potatura non è castigo, ma preparazione. Se la nostra gratitudine per il passato è solo parziale, anche la nostra speranza  per il futuro non potrà mai essere piena.

Se continuiamo a covare risentimento per cose che vorremmo non fossero mai accadute, rapporti che vorremmo fossero andati diversamente, errori che vorremmo non aver compiuto, parte del nostro cuore resta isolato, incapace di portare frutto nella vita nuova che ancora ci attende.

E’ come vivere la nostra storia frammentata in compartimenti stagno, dove l’impenetrabilità è la caratteristica dominante.

Veniamo costretti a comportamenti, atteggiamenti compulsivi.

[Il termine compulsione deriva dal latino “compellere” e indica un comportamento impulsivo incontrollabile. Le persone affette da una compulsione agiscono, in situazioni specifiche, senza riflettere, spesso pentendosene un attimo dopo]

Siamo costretti ad agire in preda alla paura; non siamo liberi di agire nella creatività relazionale.

Pensiamo di dovere avere tutto sotto controllo, di dovere preoccuparci di tutto. Questo atteggiamento ossessivo   provoca inquietudine, ansia.

Fin quando è la paura che orienta  la nostra vita vuol dire che siamo prigionieri di noi stessi. Gli eventi e le persone che sono in grado di farci paura esercitano su di noi un grande potere.

In questo modo, la nostra prima preoccupazione, nelle relazioni con gli altri, diventa il pensare chi mi è amico e chi mi è ostile, chi parla bene di me e chi invece mi critica, a quanti piaccio e a quanti  dispiaccio, chi è dalla mia parte e chi mi si oppone.

Tale visione che sembra strutturare la nostra identità viene ad occupare un posto centrale nella nostra vita, diventando la postazione da cui osservare gli altri, il loro comportamento, la loro capacità relazionale.

Diventa necessario guardare in faccia questa realtà personale che crea non pochi blocchi al contatto con gli altri e sviluppa profondi sensi di colpa che possono soltanto aggravare una situazione già di per sé alterata.

Alzare lo sguardo dal proprio ombelico, ampliare il proprio orizzonte  aiuta senz’altro a non irrigidirsi su posizioni ossessive, chiudendosi nel proprio mondo compulsivo.

Tale consapevolezza ci fa uscire dal ritmo frenetico dei nostri impegni, che ci spingevano soltanto a riempire  il nostro spazio interiore di recriminazioni per il passato e di preoccupazioni per il futuro.

Un ruolo paralizzante,però, su qualsiasi presa di coscienza viene esercitato da una sorta di fatalismo, che si esprime con: “A che serve darsi da fare? Alla fine resteremo tutti sconfitti. Siamo vittime del destino!”

Questo atteggiamento porta facilmente al risentimento, all’amarezza, allo scoraggiamento, allo scetticismo e quindi alla disperazione.

Chiudersi in un tale fatalismo, porta a mettere etichette, a creare categorie, a permettere agli altri di maltrattarci non per umiltà, ma perché non crediamo che qualcosa possa cambiare.

Anche problematiche generali, come la guerra, la povertà, l’ingiustizia sociale vengono affrontate con la stessa sfiducia “ Come potrei, io, cambiare qualcosa?”

Così diventiamo schiavi della routine, seguiamo la corrente per non esporci in maniera personale. “Così fanno tutti”.

Il tempo si colora di grigio, diventa pesante da vivere, si carica di tensioni, preoccupazioni, diventa maledettamente noioso.

Il “mordi e fuggi”, il “consuma e getta via”, sono slogans non solo della pubblicità, ma della nostra vita quotidiana.

Ammazziamo il tempo riempiendolo di cose inutili. Vogliamo molte cose e le vogliamo subito.

Fare shopping a tutte le ore, le domeniche incluse, per sfuggire a noi stessi e scaricare negli acquisti le nostre tensioni interiori.

Evitiamo qualsiasi sofferenza, soprattutto tutto ciò che possa richiedere un minimo impegno.

Quanta impazienza! Quanta noia nel nostro tempo non redento.

L’autocommiserazione, i sensi di colpa così si riaffacciano inesorabilmente facendoci chiudere in un circolo vizioso.

Il rischio, a questo punto, è il vivere l’amicizia, il matrimonio, i rapporti in un gruppo, in una comunità di fede, congelati in uno schema comportamentale dove la regola di base è: non soffrire, non avere problemi.

Ci accostiamo all’altro, in genere, marito/moglie, amico/amica, fratello/sorella,  con un progetto nostro già prefabbricato, per cui se l’altro si muove diversamente da come abbiamo pensato, ci delude.

In questo modo, l’altro diventa solo fonte di delusione, di amarezza, di sofferenza.

 

Pubblicato in Temi di riflessione

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