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L’epoca delle passioni tristi

Questo titolo, apparentemente un pò strano, è quello dato da due psichiatri francesi, che a loro volta, riprendono una definizione del celebre filosofo Spinosa, ad una situazione frequente nella società moderna che riguarda prevalentemente – ma non solo – il mondo giovanile.
Sempre più frequentemente ai consultori ed alle strutture sociali specializzate pervengono richieste crescenti di aiuto che inducono interrogativi sulle cause di un apparente massiccio diffondersi delle patologie psichiatriche tra i giovani.
Si tratta di un malessere diffuso, di una tristezza che attraversa tutte le fasce sociali, di un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia, alla quale bisogna rispondere “armandoci” e “armando” i nostri figli.
Queste situazioni lasciano le famiglie impotenti e angosciate all’idea di non essere in grado di provvedere al problema che affligge uno dei loro componenti, quindi di non essere una «buona famiglia».

Ma in realtà il problema è molto più ampio: i problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura moderna occidentale fondata sulla promessa del futuro come effetto del progresso scientifico, sociale e psicologico. Questa “fede” in una redenzione –potremmo dire- “laica” è stata ormai sostituita dal futuro cupo, dalla brutalità che identifica la libertà con il dominio di sé, del proprio ambiente, degli altri. Tutto deve servire a qualcosa e questo utilitarismo si riverbera sui più giovani e li plasma.

Come nasce tutto questo? I due psichiatri individuano un inizio di questa crisi: quella che è stata definita la “morte di Dio”.

In questo processo, iniziato con la Rivoluzione Francese, si assiste alla fine dell’ottimismo cristiano, che visualizzava il passato come peccato e sofferenza, il presente come redenzione, il futuro come salvezza.

La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche tre eredi: Scienza, Utopie e Rivoluzione che hanno proseguito, in forma laicizzata, questa visione ottimistica della storia, dove la triade: colpa, redenzione, salvezza trovava la sua riformulazione in quell’omologa prospettiva dove il passato appare come “male”, la scienza o la rivoluzione come redenzione, il progresso (scientifico o sociale) come salvezza.
Il positivismo di fine Ottocento era infatti animato da una sorta di “messianesimo” scientifico, che assicurava un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza.
Sul versante sociologico Marx auspicava una radicale trasformazione del mondo mediante l’azione rivoluzionaria, alla quale avrebbe fatto seguito un mondo privo di ingiustizie.
Sul versante psicologico Freud ipotizzava che il processo di consapevolezza mediato dalla attività psicoterapeutica avrebbe esaurito le forze inconsce, negative, non controllate ed affermava: «Questa è l’opera della civiltà».
L’Occidente si è consegnato senza riserve all’ottimismo che, sia nella versione religiosa, sia nelle forme laicizzate della scienza, dell’utopia e della rivoluzione, ha guardato l’avvenire nella convinzione che la storia dell’umanità è inevitabilmente una storia di progresso e quindi di salvezza.

Oggi questa visione ottimistica è crollata.

Se Dio è davvero morto, anche i suoi eredi (Scienza, Utopia e Rivoluzione) hanno mancato la promessa. Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare il futuro dall’estrema positività della tradizione cristiana all’estrema negatività di un tempo affidato alla casualità senza direzione e orientamento.

Il futuro da «promessa» è diventato «minaccia».

E questo perché se è vero che la tecnoscienza progredisce nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci getta in una forma di impotenza molto diversa, ma forse più temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di far fronte alla nostra infelicità e ai problemi che ci inquietano.

i consultori sono quotidianamente sollecitati da genitori e insegnanti che non sanno più come far fronte all’ indolenza dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione che li isolano nelle loro stanze a stordirsi le orecchie di musica, all’ escalation della violenza, allo stordimento degli spinelli che intercalano ore di ignavia.

Come sono riconducibili tutti questi sintomi alla «crisi storica»? La mancanza di un futuro come promessa arresta la progettualità e concentra tutti i desideri nel presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva.
E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale tutta concentrata sul presente) quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora «il terribile è già accaduto», perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’energia vitale implode

Questo processo ha varie implicazioni ulteriori:

    • Nell’adolescente non si verifica più quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull’amore di sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo passaggio, bisogna spingere gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche, impostando un’educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che «ci si salva da soli», con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
    • La mancanza di un futuro come promessa inoltre non conferisce ai genitori e agli insegnanti l’autorità di indicare la strada, di porsi come esempio positivo di una vita realizzata, in definitiva come modello per credere nell’avvenire. Tra adolescenti e adulti subentra allora un rapporto «contrattualistico» dove genitori e insegnanti si sentono continuamente tenuti a giustificare le loro scelte nei confronti del giovane, che accetta o meno ciò che gli viene proposto in un rapporto ugualitario. Ma la relazione tra giovani e adulti non è simmetrica, e trattare l’adolescente come un proprio pari significa non contenerlo, e soprattutto lasciarlo solo di fronte alle proprie pulsioni e all’ansia che ne derivano.

Quando i sintomi di disagio si fanno evidenti l’atteggiamento dei genitori e degli insegnanti oscilla tra la coercizione dura (che può avere senso quando le promesse del futuro sono garantite: ti impedisco questo atteggiamento o te ne impongo un altro perché desidero che tu possa realizzare la tua vita) e la seduzione di tipo commerciale di cui la cultura berlusconiana che si è andata diffondendo è un esempio (sii promosso e avrai il motorino).

Senonché anche i giovani di oggi devono “fare il loro Edipo”, devono cioè esplorare la loro potenza, sperimentare i limiti della società, affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza, tra cui uccidere simbolicamente l’autorità, il padre. E siccome questo processo non può avvenire in famiglia dove, per effetto dei rapporti contrattuali tra padri e figli, l’autorità non esiste più, i giovani finiscono col fare il loro Edipo con la polizia, scatenando nel quartiere, nello stadio, nella città, nella società la violenza contenuta in famiglia.

Quindi esiste un nesso profondo tra il passaggio storico del futuro come promessa al futuro come minaccia e le manifestazioni psico (pato) logiche del disagio dei giovani che non riescono più a percepire l’integrazione sociale, l’acquisizione dell’apprendimento, l’investimento nei progetti, come qualcosa di connesso a un loro desiderio profondo, che è poi il desiderio di desiderare la vita.

A ciò si aggiunga che le passioni tristi e il fatalismo non mancano di un certo fascino, ed è facile farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dal fascino, esistente nonostante tutto, delle varie apocalissi che, dalla minaccia nucleare a quella terroristica, cadono come un cielo buio su tutti noi.

Ma è anche vero che le passioni tristi sono la conseguenza di una interpretazione della realtà, non la realtà stessa.

Certo la nostra epoca smaschera l’illusione della modernità che ha fatto credere all’uomo di poter cambiare tutto secondo il suo volere. Non è così. [Nota 1]

Ma l’insicurezza che ne deriva non deve portare la nostra società ad aderire massicciamente a un discorso di tipo paranoico, in cui non si parla d’ altro se non della necessità di proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto che se la società percepisce come inutili principi e divieti, che caratterizzano la convivenza sociale, perché non funzionali al bisogno principale di difendersi, allora la barbarie è alle porte.

Allora qual è la strada da seguire?

Sembra che il rimedio più efficace sia un altro, diametralmente opposto, e precisamente quello di costruire dei legami affettivi e di solidarietà, capaci di spingere le persone fuori dall’isolamento nel quale la società tende a rinchiuderci, in nome degli ideali individualistici che, a partire dall’America, si vanno paurosamente diffondendo anche da noi.
Quindi per uscire da questo vicolo cieco occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato, dell’appagamento delle relazioni non opportunistiche, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati.
In questo senso la famiglia è chiamata ad un’opera educativa immensa: dare voce e senso alla speranza. Ma educare alla speranza è un invito rivolto a tutti, che assume inoltre preciso valore terapeutico per quanti, professionalmente, siano chiamati a rispondere al disagio giovanile: un invito ad aprire nuove piste per nuove pratiche cliniche e per nuovi orizzonti di vita.

Rielaborazione del commento di Umberto Galimberti su : La Repubblica> 2004 > 06> 01> Noi , malati di tristezza.


[Nota 1] Il perché è rintracciabile nella teoria della comunicazione del rischio, riscontrabile nella storia della salute pubblica, e confermato anche dalla attuale vicenda del COVID-19. Nella moltitudine di interventi sui media si ritrovano tutti gli ingredienti tipici delle epidemie: accuse, complotti, strumentalizzazioni, interessi oscuri, pochi che provano a tranquillizzare troppo e molti che pretendono collaborazione e razionalità di fronte a scenari complessi (che nessuno riesce a conoscere in modo esaustivo). Come scrive Andrea Cerase nel suo libro “Rischio e comunicazione. Teorie, modelli, problemi” (2017), “I risultati del vasto insieme di ricerche hanno consentito di evidenziare alcune caratteristiche chiave per spiegare la percezione del rischio e influenzare le decisioni: la familiarità, la controllabilità, la volontarietà dell’esposizione, il potenziale catastrofico, l’equità, l’immediatezza del pericolo e il livello di conoscenza”. Secondo questa impostazione, e riprendendo Sandman (1993), la percezione del rischio è il giudizio soggettivo che le persone elaborano riguardo alle caratteristiche, alla gravità e al modo in cui viene gestito il rischio stesso. L’uomo si scopre vulnerabile e sperimenta la sua finitudine e questo lo destabilizza. Quanto è non controllabile mette paura e COVID-19 non si sottrae a tutto questo. La paura è insita nelle sue caratteristiche e non è completamente gestibile, tanto meno con richiami generici a dominare la paura, come non è evitabile un sovrappiù di preoccupazione pubblica per la gestione di un problema così complesso. In nome del dovere di informare e del diritto di conoscenza, ambedue sacrosanti, tutti gli organi di informazione e i social-media offrono in diretta l’aggiornamento del numero dei contagiati e di ogni nuovo decesso, corredati col numero di cittadini sottoposti a misure di contenimento. Ogni decesso assume un peso enorme e aumenta paura e smarrimento. La combinazione tra modalità di trasmissione, meccanismo di generazione della malattia, gestione del rischio e paura intrinseca travalicano l’entità dell’impatto sulla salute. Si tratta di una paura ben diversa da quanto preconizzato da Hans Jonas, secondo il quale la responsabilità verso il futuro implica una “euristica della paura”, una paura che sarebbe da recuperare dal nostro bagaglio biologico per imparare ad usarla come uno strumento che ci induce alla prudenza. [Da “La paura ai tempi del coronavirus” di F. Bianchi e L. Cori]

Pubblicato in Temi di riflessione

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