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La violenza sessuale

Il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi,

potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce.

(Tucidide V secolo a. C.)

La violenza sessuale risulta essere il più grande tradimento in una relazione; la sessualità, mezzo di comunicazione in una relazione amorosa, diviene, mediante la violenza, un mezzo per ferire, usare l’altro, piegare l’altro ai propri bisogni.

Chi commette tale violenza si accosta alla vittima come se offrisse amore, mentre in realtà approfitta dell’innocenza e dell’impotenza dell’altro, carpendone, molte volte, la fiducia e calpestando qualsiasi sentimento che l’altro possa esprimere. Anzi più la vittima esprime opposizione, resistenza, rifiuto  più la violenza acquista consistenza con atteggiamenti, minacce, intimidazioni. Il tradimento della fiducia, specie lì dove la vittima conosce il suo carnefice, basti pensare alla violenza che si consuma nell’ambito familiare, costituisce l’aspetto più dannoso di tale crimine, insieme con la violazione fisica che aggiunge un’importante dimensione di paura e sofferenza a questa azione distruttiva. Cicatrici profonde si realizzano nel vissuto di chi ha subito violenza; esse sono talmente profonde  che portano ad assumere atteggiamenti costituiti da una rimozione dell’evento traumatico e da una  repressione dell’esperienza per sentimenti di vergogna e di disgusto verso quanto accaduto. La repressione si evidenzia con la completa insensibilizzazione di una parte del corpo; si realizza una dissociazione  di tipo schizoide, in cui la mente conscia non s’identifica con gli eventi corporei. Si realizza il distacco dal corpo e la mente non è in rapporto con la propria sessualità, limitata all’apparato genitale e senza coinvolgimento passionale. In sostanza a livello superficiale della personalità s’incontra una persona matura, ma a un livello profondo vi è una creatura terrorizzata, sperduta e indifesa.

Per chi ha subito violenza, quanto più precoce è l’età dell’esperienza violenta, od anche quanto più immatura è la personalità della vittima, il sesso e quindi la sessualità non vengono percepite come una realtà coinvolgente tutta la persona, ma  anzi tutto quanto riguarda il sesso è vissuto in maniera duplice, come fonte di eccitazione e di paura.

Ogni atto di violenza su un bambino sia violenza  fisica in genere che sessuale terrorizza il bambino e lo spinge, come atteggiamento di difesa, a dissociarsi dal suo corpo. Il corpo della vittima si carica di emozioni forti e la piccola mente non è in grado di assorbire ed elaborare emozioni tanto forti. Ogni tentativo verso una ricomposizione di tale scissione tra mente e corpo si accompagna ad un rinnovamento dell’esperienza di terrore, rafforzandosi quella chiusura in se stessi  con ulteriore distacco dal corpo. La vittima vive  un’intensa eccitazione sessuale, circoscritta all’apparato genitale, e, al tempo stesso, dissociata dalla sfera conscia della mente. Quegli eventi di violenza  hanno come  folgorato la vittima,  si sono incisi nella sua memoria e nel suo corpo, mediante un’eccitazione non integrabile dal corpo e dall’Io immaturi.

Tale esperienza viene così a segnare la piccola vittima lasciandola vincolata, pur crescendo e maturando, all’ evento traumatico subito, per cui ogni qualvolta si presentano, nel corso della  vita, esperienze dove si ripropone l’aspetto sessuale alla base della relazione, puntualmente si riaffacciano la paura e l’impotenza a reagire come automatismi connessi  all’atto violento subito in età infantile.

La vittima reagisce, poi, nel tempo, coltivando sentimenti di  odio e di rabbia, che si vanno sedimentando  nel suo cuore. Anche questi sentimenti non sfuggono alla logica della dissociazione, infatti appaiono dissociati dal corpo proprio per un bisogno di sopravvivenza.

In sostanza l’odio e la rabbia sono annidati nel cuore della vittima disgiunti, però, dall’esperienza corporea, per cui, molto spesso, la disponibilità sessuale caratterizza il comportamento della vittima della violenza sessuale, senza però un coinvolgimento mentale.

La personalità, in età adulta, appare scissa tra una mente sofisticata e sentimenti infantili di dipendenza e paura. Appare, cioè, a livello superficiale, sessualmente sofisticata e nasconde il sentimento di fondo di essere una persona sperduta, indifesa e spaventata, ferma in un certo senso a quel momento traumatico.

Le relazioni che s’instaurano nel tempo, da parte di chi ha subito violenza, presentano una particolare connotazione determinata dalla reazione a quegli eventi di violenza: o di passività o di aggressività.

Quanti sono stati oggetto di violenza sessuale, reagiscono: o come oggetti passivi paralizzati dall’eccitazione o come soggetti aggressivi trasformandosi in maniera inconscia nella figura del violentatore.

Sostanzialmente ciò che è stato danneggiato dalla violenza in maniera grave è il sentimento che necessariamente deve accompagnare qualsiasi esperienza umana perché non abbia i colori della violenza.

Un sentimento di accettazione, di accoglienza, di piacere, di adesione, di consenso, di arrendevolezza volontaria va espresso all’altro perché vi sia scambio costruttivo, ma ciò non è possibile senz’altro in età infantile né tanto meno in un contesto di violenza.

La violazione in età precoce, ossia prima che si sviluppi la capacità di scaricare l’eccitazione attraverso un fluire di sentimenti che possono sfociare nel partecipato consenso, fa sì che tali eccitazioni si carichino di una forza ingestibile sia per il contesto e sia per l’inesperienza dall’individuo, che resta come paralizzato senza possibilità di controllo.

La persona violata viene letteralmente espropriata dai suoi organi genitali. Può riappropriarsene soltanto se con la maturazione  impara a disciplinare i propri istinti controllandone e modulandone gli impulsi.

Nel bambino violato tutto resta bloccato sia fisicamente da una banda di tensione intorno alla vita sia psicologicamente da sentimenti di vergogna per le proprie parti sessuali, considerate sporche.

Si arresta quello sviluppo, quella maturazione che comporta l’inquadramento dell’aspetto sessuale come un’espressione d’amore, l’acquisizione del corpo  come linguaggio non verbale d’amore, i gesti che accompagnano necessariamente l’atto sessuale come ulteriore comunicazione d’amore.

L’amore così si macchia in modo quasi indelebile di ambiguità, di sfrenatezza istintiva, di sentimenti di ostilità repressa. Viene fuori una personalità multipla in conseguenza del conflitto tra il piacere e la paura, tra la sensazione di essere desiderabili e un forte sentimento di vergogna. Nasce molte volte una sorta di colpevolizzazione di se stessi; si è colpevoli per essere stati attraenti, per avere suscitato attenzioni pruriginose nell’autore della violenza. Si può arrivare ad essere convinti della propria responsabilità  nella violenza consumata, nonostante il ruolo rivestito come vittima. Paura, vergogna e umiliazione sono i sentimenti provati dalla vittima della violenza e  possono portare ad una rigidità, ad una inflessibilità che serve non solo a controllare le passioni, ma anche a controllare i sentimenti di odio, ostilità verso gli altri.

Vi è una forte resistenza a esprimere rabbia contro il violentatore, legato sia al senso di colpa per avere partecipato comunque agli atti sessuali, sia alla paura di sentimenti di ostilità per colui che ha forzato la volontà della vittima e ne ha condizionato il modo di vivere.

Odio che può essere espresso nei confronti di tutti tranne che, il più delle volte, nei confronti del violatore. Sia per la rimozione operata, sia per il vissuto comune dove vittima e carnefice si sono comunque incontrati seppure in un contatto travolgente e sconvolgente.

Mancando una realtà di identificazione si rischia di identificarsi in maniera inconscia con il violentatore, assumendone i caratteri aggressivi, per la rabbia repressa, per la mortificazione subita.

In effetti lo sviluppo libidico rimane ancorato al ricordo rimosso e ai sentimenti ad esso associato, per cui la vittima  finisce con l’identificarsi con la persona autrice della violenza sessuale.

Molto spesso, la vittima nel tempo si va trasformando in violentatore, se non intervengono quei processi maturativi per trovare un equilibrio tra mente e corpo. Per uscire da quella schizofrenia si rende necessario recuperare l’aspetto sessuale integrandolo nel costruttivo inquadramento della persona. Le emozioni   sessuali sono da incanalare nel contesto della persona che volontariamente sa donarsi e accogliere l’altro come dono.

La reciprocità caratterizza la relazione matura. Le motivazioni che possono spingere la vittima ad assumere il ruolo del violento in età adulta sembra essere collegata all’umiliazione provata da piccolo come vittima. Tale evento è conseguenza della violenza subita, che è andata  producendo una metamorfosi nella vittima, inducendo in essa la sensazione esaltante di avere potere su un’altra persona mediante la violenza, quasi come antidoto alla violenza subita. E’ vero che ognuno si trasforma in ciò che lo condiziona. L’umiliazione subita come vittima  ha determinato un sentimento di impotenza, di incapacità relazionale, che scompare se dall’altro lato vi è un bambino, o un partner indifeso o sottomesso. Così il ferire e l’umiliare l’altro, il volere che l’altro sia sottomesso sono sentimenti che nascono in chi ha subito violenza come necessario bisogno di sopravvivenza dinanzi agli eventi vissuti con tutta la drammatica conseguente compromissione della personalità.

Tutto ciò ci fa comprendere che un sottile diaframma separa vittima e violentatore se non vengono attuati rimedi opportuni, equilibrati alle realtà di violenza.

Troppo spesso per incapacità ad affrontare tali situazioni la famiglia stessa si trasforma in complice delle violenze consumate tra le mura domestiche. Molte volte si tende a mascherare, sminuire, fingere di non sapere, di non capire, altre volte si tende a  colpevolizzare, tacere lasciando le piccole vittime, comunque, da sole nella loro tormentata esperienza. Non si ha per nulla  coscienza che il male  va arginato con interventi maturi ed equilibrati che soprattutto siano tesi ad inquadrare  l’accaduto per impedire rimozioni e repressioni con errate letture e interpretazioni dei fatti. Invece, purtroppo, la violenza paralizza non soltanto la vittima ma anche tutto l’ambiente circostante che viene rinforzando  il male commesso con  comportamenti ambigui. L’elemento comune è la mancata chiarezza, la totale incapacità a sapere affrontare atteggiamenti violenti.

Il vile silenzio denso di incapacità così diviene il lurido manto con cui ricoprire la violenza e favorirla perché è l’ambiguità lo scenario di fondo su cui si consuma la violenza tra le mura domestiche.

Come segnalato all’inizio, il violentatore gioca il suo ruolo nell’ambiguità: si accosta con affetto alla vittima ma si appropria di quanto vuole con violenza; la famiglia, se in qualche modo, viene a conoscenza di qualcosa che ha sentore di violenza, gioca il suo ruolo nell’ambiguità non proteggendo le vittime e sfuggendo alle proprie responsabilità.

La strada del silenzio, del fare finta di non vedere comportamenti illeciti diviene il tacito assenso, il complice consenso dato a chi è autore della violenza.

Il vangelo stesso riporta espressioni aspre da parte di Gesù che rifiuta con la sua durezza di essere in qualsiasi modo complice di quanti operano il male ai danni dei piccoli. Tutto ciò a conferma che non vi può essere nessun cedimento dinanzi a comportamenti di violenza e nessun patteggiamento con chi percorre una strada di violenza.

La vera misericordia sta nell’avere il coraggio di prendere le distanze con chiarezza da tutto ciò che ha sapore di violenza e da quanti sono violenti operatori di scandali, altrimenti, come dice Agostino nel suo commento alla prima lettera di san Giovanni: non è carità, ma mollezza.

«Se ami veramente l’uomo lo correggi.

Anche se talvolta devi mostrarti alquanto duro,

fallo proprio per amore del maggior bene del prossimo.

(Sant’Agostino IV secolo d.C.)

Pubblicato in Temi di riflessione

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