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Il Capro espiatorio

Continuamente la Sacra Scrittura invita sia il singolo uomo che il popolo a cercare il volto di Dio ed, una volta trovato, a non perderlo di vista per non ricadere nell’esperienza umana intrisa di limiti, egoismi, ribellioni, colpevolizzazioni, insomma, in una parola, di peccato.

Il peccato risulta essere in concreto un’esperienza di solitudine, di separazione da Colui che con il Suo costante Amore di Padre cerca di entrare in relazione con le sue creature.

«Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» così recita la preghiera che Dio stesso suggerisce a Mosè perché sia utilizzata come formula di benedizione per il popolo (Numeri 6, 25-26).

Il peccato che appunto è ribellione, autonomia, affermazione dell’uomo senza fare riferimento all’Amore di Dio, porta a sperimentare la morte dell’essere, la morte ontica.

L’uomo, in questo modo, si lascia alle spalle Dio e realizza nella vita quotidiana atteggiamenti che esprimono tale condizione interiore; vivendo da solo e senza Dio, l’uomo si trova in uno stato di angoscia.

L’angoscia come disperazione secondo la visione esistenzialista ha fatto il suo tempo, attualmente si presenta come “anestesia” come “amnesia”.

Dimenticare, non tenere conto della storia, dell’esperienza dell’umanità appare come una possibile strada da percorrere per non soffrire.

Dio è presente nella storia ed allora volgere le spalle a Lui è, in concreto, dimenticare, non avere memoria.

Ogni volta si ricomincia daccapo senza tenere presente per nulla l’esperienza fatta nel tempo. La storia comincia da me, non c’è passato, non c’è esperienza maturata da altri. Tutto comincia da me.

Se, in qualche modo, si realizza un richiamo al passato vi è un senso di disprezzo per tutto ciò che non mi appartiene; una svalutazione generale ricopre tutto ciò che è stato vissuto dalle precedenti generazioni.

In sostanza, tale atteggiamento viene indotto dal desiderio di fuggire da un passato non metabolizzato. Si cerca di rimuovere, azzerare, liquidare le questioni sfuggendo ad una rielaborazione meditata, ad una riflessione critica che potrebbe determinare scelte, sul piano pratico, a volte troppo impegnative.

Si preferisce ignorare tale possibile complessa e maturata revisione, assumendo atteggiamenti agnostici, disimpegnati, addirittura trasgressivi.

Inoltre, nell’attenzione angosciosa al proprio mondo, si è propensi al tradimento, a tradire nel quotidiano qualsiasi valore ideale.

Tradire significa lasciare che il giusto sia portato via anche se accusato ingiustamente, abbandonare nel momento del bisogno, della crisi l’amico con il quale si sono condivisi momenti di crescita, di condivisione.

Si preferisce stare nell’anonimato, nel qualunquismo, lontani mille miglia da tutto ciò che può rappresentare impegno, solidarietà, compromissione.

Si preferisce anche sul piano sociale, comunitario il potere di uno sugli altri, si preferisce non responsabilizzarsi, affidando nella vigliaccheria suprema ad uno solo la nostra delega esistenziale.

La lettura dei fatti accaduti viene fatta alla ricerca angosciosa di “un capro espiatorio”, cioè di una persona che sia caricata del comune disagio, che venga additata come unico responsabile del proprio malessere o del malessere collettivo.

Proprio perché manca un senso critico della storia, una rielaborazione morale degli eventi, il meccanismo psicologico che viene attuato ricalca modelli nei quali manca la relazione con gli altri, il confronto comunitario.

Si preferisce mascherarsi, fingere sentimenti, evitare di esporsi agli occhi degli altri assumendo atteggiamenti leali, manifestando con chiarezza il proprio punto di vista.

Si sostituisce giorno dopo giorno alla chiarezza l’ambiguità, alla lealtà la falsità, alla parola benevola la maldicenza, alla revisione costruttiva il giudizio distruttivo, alla pace interiore la rabbia velenosa verso tutto e tutti.

Si alterano in forza del peccato tutti quegli elementi costitutivi della persona, quelle capacità relazionali che fanno sì che l’uomo porti avanti la sua vita assieme agli altri, nella condivisione di gioie e dolori, assumendo la storia dell’umanità come evento in cui si è protagonisti e non passivi spettatori irresponsabili.

Nella vita quotidiana s’insinuano cinque veleni che vengono giorno dopo giorno a soffocare qualsiasi possibile capacità relazionale, distruggono la persona orientandola verso quella condizione di angoscia esistenziale.

Ci limitiamo qui ad elencare questi cinque veleni, indicati dai maestri di spiritualità anche come le cinque catene che rendono l’uomo schiavo o come le cinque passioni che compongono l’egoismo. Sono l’odio, l’orgoglio, l’avidità, la gelosia, la stupidità.

E’ proprio nell’odio che l’uomo si mostra indifferente agli altri, neppure si accorge degli altri anzi si mostra pronto a riconoscere nell’altro il nemico che attenta alla sua vita, a vedere nell’altro quel capro espiatorio su cui scaricare tutte le insoddisfazioni, tutti i fallimenti giornalieri. ” E’ per colpa tua….” ” Mi hai distrutto la vita….” Sono le espressioni più usuali per esprimere il proprio disagio, la propria tristezza, la propria rabbia.

C’è un colpevole.

Non sono io.

” La donna che tu mi hai posto accanto….” (Gen 3, 12)

Adamo attua tale comportamento subito dopo l’esperienza di peccato, di ribellione alla disposizione divina che regolava la sua giornata nel giardino dell’Eden.

L’altro veleno che pure porta all’identificazione di un colpevole sempre al di fuori di sé, di quel capro espiatorio su cui far ricadere tutte le negatività possibili ed immaginabili, è la stupidità. S’intende con questo termine quella condizione non legata necessariamente alla mancanza di cultura, ma piuttosto ad una mancanza di capacità di riflessione, d’intelligenza (da “legere inter” = scegliere tra), di intuizione (da “tueri in” = guardare dentro) di penetrazione andando al di là dei fatti, delle apparenze alla ricerca di motivazioni soggiacenti.

Le vittime della stupidità sono molto più numerose di quanto si possa ritenere.

La stupidità risulta essere un male contagioso, che può coinvolgere comunità intere, ambienti di lavoro (oggi si parla di mobbing) sotto forma di consuetudini, tradizioni, leggi, modi di pensare, talmente condizionanti da rendere inutilizzabile l’unico strumento a disposizione dell’uomo che risulta essere il discernimento, il sano equilibrio mentale.

Il peccato ha rotto questo equilibrio; l’avere voltato le spalle a Dio ha determinato la caduta dell’uomo in una tale realtà esistenziale di schiavitù, di velenosa coabitazione con gli altri uomini, dove vengono a mancare sostanzialmente le capacità relazionali vissute in maniera costruttiva secondo sentimenti di condivisione pacifica.

La relazione diviene malevolenza. La vita diviene maledizione; tutto si esprime nel dire male di Dio e dei fratelli, nella mormorazione costante a tutto raggio su tutti.

” Ti tratteremo con benevolenza e lealtà …” (Giosuè 2, 14) ecco l’impegno espresso dagli esploratori prima di entrare nella Terra promessa.

E’ inutile farsi illusioni solo rompendo con il peccato e coltivando tali attitudini diviene possibile entrare in quella terra dove scorre latte e miele: la tenerezza di Dio e l’amore tra i fratelli.

La relazione soltanto così diviene benevolenza.

Si costruisce nel dialogo.

“La prova dell’uomo si ha nella sua conversazione” (Sir 27, 5) ammonisce il libro del Siracide.

La logica perversa personale e comunitaria del capro espiatorio è abolita lì dove il dialogo, la conversazione si svolge nella benevolenza e nella lealtà.

Pubblicato in Temi di riflessione

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