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Gioventù da ascoltare

Fatti di sangue, con droga, alcool, sesso sullo sfondo, hanno riempito le pagine di cronaca dei nostri giornali, interessato trasmissioni televisive, occupato, insomma, i mass media  a proposito e a sproposito.

Vorremmo cercare di andare al di là dei fatti.

Gli eventi: sconcertanti in quanto maturati in ambienti giovanili.

La scena dei delitti: un contesto inquadrabile come normale, con studenti meritevoli che s’impegnano con profitto e appartenenti a famiglie vicine a standard sociali.

Liquidare il tutto con una sentenza non stimola alcuna maturazione, ma anzi rischia di annullare ogni considerazione, facendoci porre una sorta di etichetta al fine di tacitare le nostre coscienze.

Piuttosto che cadere nella tentazione facile di esprimere un giudizio definitivo, vorremmo tentare una riflessione per rileggere gli avvenimenti in tutta la loro cruda drammaticità.

Capire quanto accade risulta doveroso; non possiamo lasciar scivolare via questa occasione quasi come se fossimo divenuti impermeabili a qualsiasi evento; vogliamo   guardare in faccia la realtà, per quanto dolorosa possa essere.

Lo sballo dei protagonisti è espressione di un mondo, espressione di un disagio.

Eppure, tutto si consuma in superficie.

Tutto si elabora mantenendosi in superficie.

Tutto si esaurisce senza tentare di scendere nel profondo dei contesti, delle espressioni, dei linguaggi.

Le interviste, la cronaca stessa sono presentate o come trailers di pellicole in programmazione, frutto di un montaggio mediatico incolore, glaciale, inespressivo, indecifrabile o sovraccarico di tensione emotiva mediante giudizi, pregiudizi, stereotipi, offerti come protagonisti quanto quelli coinvolti nella realtà..

La tecnica adottata è in fondo la stessa.

Tutto fa spettacolo.

Il linguaggio giornalistico è molto più vicino a forme di spettacolo tendenti a creare ascolto, piuttosto che a promuovere una riflessione negli ascoltatori.

L’approccio è quello dell’indagine, quasi come se accanto a quella vera svolta dagli organi competenti si aprisse un percorso parallelo alla ricerca dello scoop, della fuga di notizie, della dichiarazione sconvolgente.

Tutto fa spettacolo per incrementare l’indice di ascolto.

Tutto punta sull’ascolto.

Ma ascoltare in maniera attiva non ha nulla a che vedere con l’indagare.

Ascoltare non è valutare per confezionare suggerimenti quasi come consigli per gli acquisti.

Ascoltare  non ha nulla a che vedere col formulare giudizi, opinioni su fatti ancora oggetto di investigazione, quasi come se l’identificazione del killer fosse prodotto dalle suggestioni delle immagini.

Tutto viene elaborato dall’immagine quasi come se i fatti richiedessero soltanto una lettura a livello immaginativo.

Accanto a questo tripudio di informazione attestata, nella maggior parte dei casi, sugli stili descritti, va riconosciuto il tentativo di interpretare  il fenomeno alla base degli avvenimenti, chiamando in causa l’analfabetismo emotivo.

Eppure le neuroscienze ci stanno offrendo, da alcuni decenni, studi, ricerche dalle quali si evince come le emozioni rientrino nel processo cognitivo. [cfr. Antonio Damasio “Emozioni e coscienza” Adelphi 2000]

La medicina, dal canto suo, si sta adoperando per dare ascolto alla sofferenza fisica misurandone l’intensità per offrire a chi soffre una risposta terapeutica adeguata, personalizzata.  [cfr. Progetto dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) “Ospedale senza dolore” promosso nel 1998].

Ed è evidente tale analfabetismo emotivo, se semplicemente si considera come gli stessi protagonisti delle vicende criminose parlano con freddezza delle persone morte senza mostrare alcuna pietà per le giovani vite spezzate in circostanze efferate.

Ecco quanto vorremmo prendere in considerazione, visto che tutto ciò riguarda i nostri giovani, i nostri ragazzi, i nostri figli, le nostre famiglie.

Vorremmo provare ad ascoltare gli avvenimenti, i protagonisti, i nostri giovani lasciandoci interrogare dal loro disagio.

Cosa nasconde, cosa copre, cosa maschera l’analfabetismo emotivo?

E’ un modo di apparire, di presentarsi mostrando sicurezza, controllo, equilibrio.

Dare voce alle emozioni, raccontandole, ascoltandole, offrendo sufficiente spazio all’elaborazione di sensazioni emotive aiuta a venir fuori dalla cosiddetta alessitimia.

 [Si definisce alessitimia un insieme di deficit della sensibilità emotiva ed emozionale, palesato dall’incapacità di percepire, riconoscere, e soprattutto descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi. L’alessitimia si manifesta nella difficoltà di identificare e descrivere i propri sentimenti e a distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche. I soggetti alessitimici hanno grandi difficoltà ad individuare quali siano i motivi che li spingono a provare od esprimere le proprie emozioni, al contempo non sono in grado di interpretare le emozioni altrui. La loro capacità immaginativa ed onirica è ridotta e talvolta inesistente, mancano di capacità d’introspezione, e tendono ad assumere comportamenti conformativi alla media. I soggetti alessitimici tendono anche a stabilire relazioni di forte dipendenza o, in mancanza di essa, preferiscono l’isolamento. L’alessitimia è stata associata ad uno stile di attaccamento insicuro evitante, caratterizzato da un bisogno talvolta ossessivo di attenzioni e cure. Altra causa che porta determinati soggetti a manifestare il tratto di personalità alessitimico è l’incapacità di simbolizzare l’emozione. L’emozione viene vissuta per via somatica (direttamente sul corpo e senza elaborazione mentale) e non interpretata cognitivamente, né concettualizzata per immagini mentali o parole che la sintetizzino e contengano]

Diviene salutare uscire fuori dalla scoordinata tensione emozionale, diviene maturante  passare ad una consapevolezza tale da tradurre in contatto soddisfacente ed armonico con la vita stessa e con gli altri l’accoglienza delle proprie emozioni, senza bisogno di ricercare altro da sé, di alterarsi mediante l’impiego di sostanze o alienarsi mediante gli eccessi sessuali.

L’alcool, la droga, il sesso in fondo sono indirizzati verso il polo del piacere, vengono assunti per darsi piacere.

Ma perché questo bisogno di piacere tanto da richiederlo senza misura, a tutti i costi, a qualsiasi prezzo anche quello della vita?

 Per paura.

All’altro polo del piacere c’è la paura.

Tanta sicurezza, spregiudicatezza, trasgressione servono a rivestire un corpo di paura, di fragilità, di inconsistenza valoriale.

L’aria che si respira nelle nostre città dell’Occidente, di Europa, d’Italia, nelle piazze del nostro paese, del nostro quartiere è un’aria di una società che non va da nessuna parte. Appare alle nuove generazioni un programma preciso, un progetto definito. Dentro c’è un messaggio sulla vita che i nostri giovani colgono prima di noi che apparteniamo alla generazione di ieri.

Sta arrivando al loro mondo il messaggio che la vita umana non va da nessuna parte e che l’unico scopo della società è quello di non soffrire.

Il potere politico  non offre sufficienti garanzie, la tecnologia non soddisfa le profonde esigenze della persona umana, la scienza, la cultura non danno risposte adeguate agli interrogativi dell’uomo di oggi ed allora dove andare?

Da nessuna parte. Questa la risposta sociale.

Datti piacere oltre misura. Questo il messaggio reiterato della società attuale.

Ed allora  un modo per andare oltre è dato dall’impiego della droga, dell’alcool, del sesso estremo. Ancora meglio se tutto ciò comporta un guadagno in termini economici, una circolazione di danaro, perché rinforza ulteriormente il messaggio edonistico.

Questa la scena dei delitti che stanno insanguinando la nostra gioventù.

Possiamo fare molto per i nostri giovani, solo se siamo pronti ad ascoltarli e annunciare loro che la vita va verso l’amore.

Quale amore?

Quello consumato con l’individuo di turno che molte volte non ha neanche un nome?

Quello saggiato nella falsata e inconsapevole aura realizzata dalla droga, dall’alcool?

Quello vissuto tra persone che si sfruttano reciprocamente come strumenti di piacere?

Uomo oggetto, donna oggetto è questa la vera uguaglianza tra i sessi?

E’ tutto questo amore?

E’ possibile che la stessa parola sia utilizzata per esprimere sensazioni, sentimenti che forse con l’amore non hanno nulla a che vedere?

Non si tratta di una semplice povertà di linguaggio.

Non siamo dinanzi ad un vuoto lessicale.

E’ certo analfabetismo emotivo, ma anche un terribile bisogno di incontrare il vero amore, che forse i nostri figli non hanno sperimentato nella famiglia ed ancor meno incontrato nella società.

C’è un vuoto d’amore.

Forse abbiamo bisogno di somministrare loro dosi generose non di alcool, droga, sesso, ma di un amore che si dona. Bisogna fare arrivare loro questo messaggio come un vissuto, una realtà viva piuttosto che come un alto ideale irraggiungibile.

Abbiamo bisogno di imparare ad ascoltarci, a saperci confrontare nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri dove troppo spesso si vive nel rancore, nell’odio, nella solitudine.

“L’uomo è misero senza Dio ed è grande insieme a Dio” (Blaise Pascal)

Pubblicato in Temi di riflessione

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