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Fecondazione extracorporea

Le nuove tecnologie riproduttive sembrano aprire prospettive nuove ed impensate alla lotta contro problemi patologici considerati un tempo insolubili e al dominio dell’uomo sulle forze della natura.

Quindi non si comprende talvolta come la comunità dei credenti possa opporsi  a quello che appare un concreto progresso nella lotta contro la malattia e la sofferenza, quasi che a dichiararsi contro certe procedure equivalga a sposare una posizione di miope oscurantismo.

Siamo veramente schiavi di medioevali pregiudizi, se ci opponiamo a questa disinvolta manipolazione della vita? Oppure la posizione della Chiesa ha una motivazione in ordine alla salvaguardia della dignità umana?

E’ quello che cercheremo di esaminare.

Quando si affronta la problematica delle tecnologie riproduttive il primo dubbio che viene spontaneo alla riflessione è il seguente: di fronte alla sofferenza, talora terribile, derivante dalla mancata realizzazione del proprio essere come genitore, è legittimo opporsi a metodiche che, certo in maniera non ottimale, possono tuttavia correggere quello che appare un errore della natura?

In altri termini: di fronte alla felicità di avere finalmente un figlio, specialmente se inutilmente e lungamente desiderato, non sembra un ben piccolo prezzo da pagare il ricorrere a tecniche che peraltro vengono pubblicizzate come ampiamente sperimentate e sicure, anzi “facili”?

La prima valutazione da effettuare è quindi se sia veramente così insignificante il costo di tali scelte.

E’ noto che alcune metodiche come la FIVET comportano per la donna che vi si sottopone uno stress fisico molto importante sia per la necessità di una massiccia terapia ormonale finalizzata alla produzione di una quantità di ovociti superiore a quelli prodotti nel ciclo naturale, sia per il ricorso obbligato a un sia pur piccolo atto chirurgico per il prelievo degli ovuli prodotti.

Ma anche successivamente, una volta fecondati gli ovociti e prodotti i cosiddetti pre-embrioni (una metà circa dei quali risulterà comunque inadatto all’impianto) ed attuato il trasferimento in utero, solo una ben piccola parte di essi arriverà a nascere. Si calcola che solo il 21% delle FIVET(17% in Italia) si concluda con il cosiddetto “bambino in braccio”. Frequentemente sono necessarie più procedure per ottenere una gravidanza, che risulta gravata da costi economici, fisici e soprattutto psicologici talvolta assolutamente insostenibili.

La scrittrice francese Dominique Grange, autrice del libro “L’enfant derriere la vitre” ha in esso raccontato il dramma dei suoi due tentativi di fecondazione assistita vissuti come la manipolazione estrema di una scienza narcisista, arrogante e fondamentalmente irrispettosa dell’uomo, dopo i quali decise di rifiutare ulteriori consensi alla procedura.

Tuttavia, non mancano autorevoli nomi in campo scientifico, non solo di formazione laica, che sostengono il ricorso alla fecondazione assistita come il minore dei mali, sia pure con sfumature diverse in tema di liceità delle varie procedure possibili, riconoscendo ad esempio validità morale oltre che tecnica ad altre metodiche come, ad es., l’inseminazione artificiale , sia essa omologa o più frequentemente eterologa.

Consideriamo allora il caso in cui un figlio venga concepito con la seconda modalità, apparentemente così “innocua”.

La maternità e la paternità sono due condizioni personali profondamente differenti: mentre la madre avverte precocemente, per le modificazioni del suo corpo, la presenza di un nuovo essere dentro di sé, il padre vive questa situazione in maniera molto più indiretta. Non è raro infatti che anche dopo una gestazione normale alla nascita del figlio il padre non riesca a “sentirlo” subito come tale ed abbia bisogno di un tempo ulteriore per maturare questa sconvolgente novità.

E’ intuitivo quindi che un processo nel quale il padre non abbia avuto che una parte molto marginale, dato che tutte le procedure di fecondazione extracorporea si risolvono in una faccenda che coinvolge solo la donna e i medici, e soprattutto avviene in un ambito nella quale sessualità e affettività sono assolutamente inutili, non siano i mezzi più adatti a far nascere e cementare il naturale sentimento di paternità.

Del 1986 è il primo caso di disconoscimento di paternità intentato in Italia dal genitore legale di un bimbo nato da inseminazione artificiale eterologa: nel dispositivo della sentenza (che dette torto al ricorrente) fu stabilito dalla suprema corte il principio (oggi sancito anche dalla legge 40) che una volta prestato il consenso all’inseminazione nessun disconoscimento di paternità è più possibile.

Ma una legge può obbligare al mantenimento ma non certo all’amore: chi potrebbe condannare con un facile “bisognava pensarci prima” una persona che, magari scarsamente preparata da un punto di vista psicologico e pressata da istanze non solo sue, si sente gravata  da insopportabile responsabilità nei confronti di un essere che non riesce a riconoscere intimamente come suo?

Peraltro a tale difficoltà psicologica paterna si aggiunge l’insopprimibile bisogno del figlio di conoscere le proprie origini: le stesse scienze umane mettono sempre più in evidenza come il sereno sviluppo della persona umana discenda da una relazione armonica e rassicurante con i propri genitori e come ogni ombra rilevante su tale rapporto  si ripercuota in uno squilibrio nella psiche adulta.

Che a tale necessità corrisponda un vero e proprio diritto soggettivo è concetto recentemente recepito dalla giurisprudenza del Regno Unito dove non è più riconosciuto al donatore di sperma il diritto all’anonimato ove il figlio richieda di conoscere il nome del genitore biologico.

Tuttavia ciò potrebbe essere considerato un semplice incidente di percorso: in fondo anche nell’adozione, di cui nessuno mette in discussione il valore morale, si verificano dinamiche molto simili a quelle descritte. Quello che cambia è che in nessuna adozione si mette in discussione il senso della vita.

Come è noto fino all’entrata in vigore della l. 40/2004 durante le procedure di fecondazione extracorporea si tendeva a produrre più embrioni rispetto a quelli da impiantare, sia per creare una “riserva” in caso di insuccesso (come abbiamo visto molto frequente) della metodica, sia per consentire gravidanze  successive senza ripetere tutto l’iter.

Questo ha determinato la creazione di una vera e propria “folla” di embrioni (migliaia solo in Italia) dei quali attualmente non si sa assolutamente cosa fare.

Posizioni laiche suggeriscono che visto che anche gli embrioni umani (come i surgelati) hanno una “scadenza”, ovvero che non è possibile protrarre indefinitamente il periodo della crioconservazione senza un ragionevole dubbio circa la loro integrità, tanto vale utilizzarli a scopo di ricerca. Tale posizione considera gli embrioni come un mero “materiale biologico”, peraltro di ottima qualità, senza nessun loro riconoscimento come individui e come persone e quindi senza nessuna tutela giuridica.

E’ veramente così?

In effetti è proprio su questa questione che si basa la  contrapposizione fra mondo laico e comunità dei credenti. Chi o che cos’è l’embrione? Persona o cosa? Soggetto od oggetto di diritto?

Il mondo cristiano ha sempre ritenuto che già l’ovulo fecondato costituisca un nuovo essere vivente e, che, per la sua appartenenza alla specie umana, egli abbia lo statuto di “persona” con tutti i diritti che ciò comporta. Tale posizione non è solo determinata da motivazioni metafisiche, ma anche, più banalmente, dal comune buon senso.

Ognuno di noi, qualunque età abbia, sente che, aldilà delle modificazioni fisiche e delle esperienze e dei ricordi accumulati, una cosa è rimasta immutabile: la propria identità, il proprio essere unico, diverso dagli altri, riconoscibile da tutti compreso se stesso. Andando indietro nel tempo questa identità rimane costante: ognuno di noi rimane uguale a se stesso a 70 come a 30 anni, a 10 come ad un anno o appena nato. E prima? Chi eravamo al 9° mese di gravidanza o al 7°? E al 5° o al 3°? E a 13 giorni eravamo noi o il nostro “pre-embrione?

Questa individualità ha una base biologica nel patrimonio genetico che, derivato dai nostri genitori, fa di ciascuno un essere unico e che ci accompagnerà, svolgendo il progetto in esso inscritto, fino alla morte, che alcuni considerano l’ultimo dei programmi genetici da realizzare.

L’embrione quindi è uno di noi, perché individuo e perché appartenente alla nostra specie: derubricarne la dignità a quella di mero materiale biologico è disconoscere e minare le basi su cui si fonda la nostra stessa esistenza.

Ma se l’embrione è “persona” merita la tutela giuridica che si deve alle persone umane: una tutela che si opponga a manipolazioni soprattutto se esse sono finalizzate a soddisfare bisogni e desideri altrui.

Particolarmente mistificante è l’affermazione che l’utilizzazione degli embrioni costituirebbe un indubbio progresso per la ricerca scientifica, permettendo terapie per malattie attualmente giudicate inguaribili, come il parkinson, il cancro, molte malattie degenerative, tramite la produzione delle cosiddette “cellule staminali”

Le cellule staminali, che sono cellule dotate della capacità di dare origine a qualsiasi altra linea cellulare, costituiscono effettivamente una promettente  prospettiva terapeutica, soprattutto nella terapia di lesioni in tessuti molto specializzati che hanno, per tale motivo, una capacità rigenerativa molto limitata.

Ma tali cellule sono presenti anche nell’individuo adulto ed è con esse e non con le cellule staminali embrionali che sono stati svolti tutti i più importanti esperimenti terapeutici assurti alla cronaca degli ultimi tempi.

Attualmente non esiste nessun esperimento scientifico che utilizzi, a scopo terapeutico, cellule staminali embrionali, ed è fondata opinione di molti che esse siano totalmente inutilizzabili sul piano pratico, sia perché  dotate di individualità genetica che ovviamente non sarebbe quella del ricevente, sia perché, essendo dotate di capacità trasformativa elevatissima, potrebbero dare origine, più che a tessuti specializzati, a teratomi o addirittura a neoplasie maligne.

Di fatto la ricerca non ha nessun bisogno degli embrioni umani e se si insiste tanto sull’argomento è solo per un criterio meramente utilitaristico, che tuttavia apre la strada alle più inquietanti prospettive: infatti, per cortocircuitare il problema dell’utilizzazione di materiale embrionale geneticamente non compatibile si è pensato di ottenere embrioni con il sistema della clonazione.

Tale metodica, conosciuta da svariati decenni, ma applicata, fino a non molto tempo fa solo sugli animali, consiste nella sostituzione del nucleo di una cellula uovo con il nucleo di una cellula appartenente a donatore. Con stimoli chimici o meccanici l’ovocita viene indotto a replicarsi e a dare origine ad un nuovo essere (umano?), copia perfetta del donatore, così come sono identici i gemelli monozigoti. E’ ovvio che tale individuo non sarebbe mai impiantato in utero, ma verrebbe congelato fino al momento in cui al “donatore” servisse una riserva cellulare, geneticamente compatibile, da usare a scopo riparativo.

Questa è la cosiddetta “clonazione terapeutica” che apre però la strada alla “clonazione riproduttiva” che consiste in un processo identico, finalizzato però a ottenere individui-copia dell’adulto donatore.

Così è nata nel 1997 la famosa pecora Dolly, per ottenere la quale sono stati necessari 277 tentativi precedenti (277 individui distrutti per ottenerne uno solo!), e che comunque è morta di vecchiaia e con malattie correlate alla senilità nonostante la giovane età anagrafica, avendo ereditato assieme al patrimonio genetico anche l’età biologica del donatore.

Di fronte a tali prospettive, che definire inquietanti è eufemistico, il cristiano deve porsi degli interrogativi, non solo relativamente al valore morale da dare alla procreazione in tutte le sue fasi, ma anche e soprattutto alla visione antropologica a cui corrispondono queste visioni della scienza e della vita e quindi allo scenario futuro che oggi si sta costruendo in base ad esse.

Nell’ordine naturale delle cose (laddove naturale non significa semplicemente “biologico”, ma specifico della natura di ogni cosa e nella fattispecie della natura umana, che si esprime nella sua corporeità, psichicità e spiritualità) il figlio è il frutto di quella forma di espressione dell’amore coniugale costituita dall’unione sessuale, mancando la quale la procreazione non può essere considerata “umana”, e cioè “degna dell’uomo”.

Il filosofo Kant enunciava  nel suo principio categorico la necessità che ogni essere umano fosse fine e mai mezzo dell’attività umana. In altri termini un figlio deve essere desiderato per se stesso, chiamato all’esistenza in virtù del reciproco amore dei genitori che su di lui lo riversano: solo questa concezione della sessualità è all’altezza dell’essere umano, in quanto rispecchia l’amore di Dio per l’Umanità e di Cristo per la sua Chiesa. Nessun desiderio o bisogno, neppure quello, assolutamente legittimo, di un figlio, può essere soddisfatto a prezzo di un così patente disprezzo per la vita umana, soprattutto nelle fasi dello sviluppo in cui l’essere umano è più indifeso e quindi maggiormente bisognoso di tutela. Come è stato autorevolmente affermato da taluni “i desideri non sono diritti”. Le pratiche che abbiamo precedentemente descritte non appaiono in nessun modo moralmente lecite in quanto rendono il figlio mezzo della realizzazione del progetto dei genitori: quindi legittimamente la comunità cristiana si oppone ad esse , a partire dall’inseminazione artificiale, che snatura il matrimonio in quello che è più caratterizzante, la sessualità, per passare alle tecniche di fecondazione extracorporea, dove a quanto precedentemente detto si aggiunge la terribile pratica della generazione di esseri viventi-vivaio, per finire alla spaventosa pratica della clonazione, vero affrancamento della riproduzione umana da qualsiasi forma di relazionalità ed affettività.

I confini morali vengono continuamente spostati da legiferazioni sempre più permissive, in nome di un relativismo etico che sostiene che ogni visione del mondo è soggettiva e che ognuno ha il diritto di orientare i propri comportamenti secondo i propri personali criteri. Ma quando si tratta di determinare lo scenario futuro nel quale vivremo noi e le nuove generazioni, tale relativismo appare ancora cosi innocuo, anzi liberatorio?

Abbiamo già sperimentato il danno provocato alla società da produzioni legislative liberiste in tema di unità della famiglia e di procreazione con il risultato di affannarci a individuare modelli alternativi di riferimento, privi della forza e della sicurezza di quelli distrutti.

Questa decisione fondamentale è la grande responsabilità alla quale siamo chiamati: una sola cosa non possiamo fare ed è NON SCEGLIERE.

Nota bene: si può fare riferimento alla lettura, sempre nel nostro sito web, dell’articolo “A custodia della vita

 

Pubblicato in Temi di riflessione

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