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Alcune riflessioni bioetiche sul referendum per la depenalizzazione dell’IVG tenutosi a San Marino

Ha destato sconcerto negli ambienti cattolici il risultato del referendum sull’aborto tenutosi recentemente a San Marino, che con ben il 77,7 % dei voti si esprime a favore della depenalizzazione dell’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza) entro la 12a settimana e anche oltre “se vi sia pericolo per la vita della donna o se vi siano anomalie e malformazioni del feto che comportino grave rischio per la salute fisica o psicologica della donna.”

Quasi in contemporanea si registrano proteste di piazza nello Stato americano del Mississippi dove un giudice federale ha bloccato temporaneamente la legge che vieta l’aborto una volta che il battito cardiaco del feto sia percettibile, circa alla sesta settimana di gravidanza.[1]

La stessa reazione si è avuta in altri stati americani dove sono state approvate leggi anti-aborto (Alabama, Georgia e Missouri) e particolarmente in Alabama, dove è stata emanata la legge più restrittiva in quanto proibisce l’interruzione della gravidanza in qualunque circostanza, con l’unica eccezione del rischio per la salute della madre.

Quanto accade ed in particolare il quesito referendario di san Marino ricordano quanto avvenuto in Italia già nel lontano 1978 dove la legge 194 fu approvata dopo un dibattito dai toni talora molto duri che metteva in contrapposizione due tendenze etiche che vennero definite: “pro life” e “pro choise”, espressioni che potremmo elasticamente tradurre: “per la vita” e “per la libertà”.

In altri termini in questa questione (ma non solo in questa, si veda il dibattito sull’eutanasia) si contrappongono due visioni non solo etiche, ma anche esistenziali: la prima che vede la vita come valore primario e bene indisponibile da parte di chiunque, e la seconda che privilegia la libertà personale come principio prioritario anche a fronte di una possibile lesione del principio precedente.

Non sembra azzardato inserire in tale questione fondamentale, aldilà delle appropriazioni politiche che si sono successivamente manifestate, anche la contrapposizione fra favorevoli e contrari ad esempio all’obbligo vaccinale: questi ultimi sostengono infatti che lo Stato non abbia il diritto di imporre una procedura che non goda del consenso, a qualsiasi titolo, dell’interessato, mentre i primi sostengono che la salvaguardia della salute pubblica possa essere attuata anche con mezzi che ledano il principio di autodeterminazione dell’individuo.

E, come si diceva prima, rientrano in tale opposta visione dell’esistenza il consenso o meno a regolamentazioni sul fine vita, ma in definitiva anche altre questioni più sfumate come ad esempio la regolamentazione sulle unioni civili e il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che hanno come fondamento anch’esse la richiesta di una libertà personale insindacabile e prioritaria indipendentemente da qualsiasi possibile ricaduta sul tessuto sociale, ritenuta irrilevante o addirittura positiva.

Ritornando al referendum tenutosi a san Marino e alle proteste delle organizzazioni femministe in America crea sconcerto non tanto il risultato referendario o l’attivismo dei movimenti abortisti, quanto l’ampiezza del fenomeno e la schiacciante maggioranza del risultato referendario; questo pone sicuramente molti interrogativi, anche in considerazione della grande energia con cui si sono battute le associazioni pro life, probabilmente grazie alla quale si sono ottenute le legislazioni restrittive degli stati americani citati

Ci si domanda: come è possibile, ed in virtù di cosa, che un principio che appare, agli occhi dell’uomo di fede, tanto lapalissiano, possa essere tenuto in così bassa considerazione da tante persone e cioè che il feto, a qualsiasi grado di sviluppo, è un essere vivente appartenente alla specie umana ed ha diritto alla vita al pari di chiunque altro?

In realtà la questione appare ritenuta di poca rilevanza, tant’è vero che i dibattiti a questo livello sono appannaggio di pochi “addetti ai lavori” e mai del grande pubblico.

In quegli ambiti privilegiati si argomenta che la vita di chi non è ancora nato (e quindi non può essere considerato soggetto giuridico, in quanto i diritti soggettivi personali si acquisiscono con la nascita) non può avere lo stesso valore di chi invece persona giuridica lo è già (cioè la madre); che il feto (e a maggior ragione l’embrione) non può essere considerato “persona”, in quanto il cervello (che è l’organo che definisce le caratteristiche personali dell’individuo e la sua esistenza in quanto parte del genere umano) non è ancora sviluppato; che quindi il feto è “persona” in potenza, ma non in atto ecc.. ecc…

Di fatto non è mai stata data una evidenza scientifica di quando l’embrione si trasformi da “cosa” a “persona” se questo non accade all’atto stesso del concepimento

Ma come si diceva, sembra in definitiva che la questione non sia interessante per la maggior parte delle persone e che invece assumano il più grande rilievo altre considerazioni:

  1. Il profondo disvalore dato alla sofferenza, per cui di fronte all’ipotesi di un disagio o di una vera sofferenza dati dalla nascita di un figlio indesiderato, empaticamente viene considerato l’aborto quantomeno come “il minore dei mali”
  2. La considerazione della diffusione del fenomeno per cui si ritiene che di fronte a eventi che non è possibile prevenire od evitare, in quanto verrebbero comunque messi in atto, legalmente o meno, sia preferibile avere un minimo controllo sui loro risvolti negativi, quali ad esempio le complicanze mediche dell’intervento o lo sfruttamento della situazione di necessità da parte di persone senza scrupoli. Anche qui l’ottica è eminentemente pragmatica
  3. Il feto effettivamente non viene “percepito” come essere umano dotato di una vita autonoma dalla madre, anche se dipendente da lei: non essendo possibile una reale interazione diretta, almeno nelle prime fasi di sviluppo, egli viene pensato come un mero accadimento futuro e non attuale, una speranza più che una realtà.

Quindi è l’aspetto culturale che assume la più grande rilevanza nella questione ed è da riflettere come la cultura modifichi anche il dettato legislativo.

Spesso si pensa alla legge come fondata su diritti e quindi su valori che “dovrebbero” (il condizionale è ben più che d’obbligo) essere immutabili e anche quando si constata una evoluzione legislativa si ritiene che questa si fondi sul fatto che i diritti non sono stati riconosciuti fino al momento in cui la consapevolezza collettiva non determini una pressione sugli organi legislativi. Quindi il diritto si dovrebbe “riconoscere”, non “creare”

Ma possiamo constatare come le usanze, il costume ed anche la consuetudine creino nuovi valori – così come valori antiquati vengono dismessi al pari di un vecchio vestito

A nuovi valori corrispondono nuovi diritti e una quindi nuova legislazione

Si pensi come alcuni diritti che non venivano assolutamente neanche considerati in epoche remote, adesso siano basilari nella giurisprudenza (ad esempio l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge con i medesimi diritti e doveri che costituì il fondamento dell’abrogazione della schiavitù); mentre altri che venivano considerati fondanti, attualmente non hanno più spazio nel sentire comune (ad es. la differenza dei ruoli familiari con predominanza della figura maschile)

Insomma, la cultura “precede” il diritto e talvolta lo stravolge di modo che alcuni diritti considerati assodati non sempre hanno un fondamento valoriale condiviso, anzi, sembra piuttosto che il riferimento valoriale venga cercato per legittimare un uso consolidato in ordine al principio che “la consuetudine fa il diritto”

D’altra parte, è esperienza di tutti che un comportamento illecito o immorale diventi quasi accettabile se condiviso con altri e magari con i più (“lo fanno tutti…”)

In altri termini se tutti, o molti, uccidessero o rubassero lo stato dovrebbe riconoscere il diritto al furto o all’omicidio e normarlo.

Questo è il caso, appunto dell’aborto, rispetto al quale si invoca la “libertà” di autodeterminazione della donna, come diritto, senza indagarne i fondamenti e, soprattutto, senza mai affrontare la contraddizione con i diritti del feto, che, semplicemente, non esistono.

Che tutto ciò nasca da una modifica culturale e valoriale è evidente: in epoche passate la condizione femminile era di sottomissione legale e morale rispetto all’uomo ed un figlio che non necessitava di riconoscimento materno invece abbisognava per l’acquisizione di diritti civili dell’esplicito riconoscimento del padre, in ordine al principio che “mater semper certa, pater nunquam”. Questo principio è stato foriero di tanta repressione nei confronti delle donne, e una gravidanza non riconosciuta dal padre metteva le donne in una condizione dolorosa di inferiorità e di solitudine.

Attualmente la scienza consente di determinare la paternità di un individuo, ma questo corrisponde oggigiorno solo ad un obbligo legale. Ben altra cosa è l’assunzione di responsabilità parentale che ha risvolti molteplici: affettivo, educativo, economico ecc.

Quante donne hanno patito la mancanza di responsabilità dei partners con la conseguenza che il figlio è stato considerato come un problema non della coppia ma esclusivo della donna?

Sembra quindi che la legge 194 con tutto il suo sovraccarico ideologico (“l’utero è mio e lo gestisco io”) non sia che il contrappasso di quell’atteggiamento deresponsabilizzato: il frutto del concepimento è effettivamente un problema solo della donna che ne ha l’esclusiva ed arbitraria potestà, indipendentemente dalla volontà del padre (nella 194 il padre non ha alcuna voce in capitolo sulle scelte della donna. Ovviamente per converso il padre non può certo decidere l’aborto, se non accetta la gravidanza)

La legge sull’aborto sancisce quindi, più che la libertà, il “potere” della donna, ma anche la sua fondamentale solitudine e l’assenza di un “noi”

Tuttavia, potremmo porci una domanda provocatoria: se fosse possibile indire un referendum abrogativo proprio sulla legge 194, quanti accoglierebbero l’invito anche fra i più convinti assertori della cultura pro life?

Ovviamente è una domanda che non ha risposta certa, ma intuitivamente potremmo rispondere: non la stragrande maggioranza.

Nonostante questo possa sembrare una eclatante contraddizione con il principio di riferimento è possibile che tale comportamento (ipotetico) possa derivare da una considerazione che è direttamente conseguente a quanto si diceva prima: laddove una cultura, quindi un costume e una prassi, “libertaria” si è già affermata, è inutile cercare di contrastarla con misure repressive

In altri termini: si pensa inefficace combattere la cultura dell’aborto mettendo in carcere chi lo pratica

Allora quali atteggiamenti potrebbero essere messi in atto per affermare una cultura della vita alternativa a quella “dello scarto” come auspica Papa Francesco?

Ovviamente è innegabile la cultura della vita comporti soluzioni impegnative, quali la condivisione solidale con chi ha pagato in prima persona quella scelta difficile, accettando un figlio in situazioni talora drammatiche e anche sostenendo psicologicamente chi ha fatto la scelta contraria, illuso da una promessa di libertà che non considera mai le conseguenze personali, pur presenti, del ricorso a quella ingannevole soluzione, scaricando sbrigativamente su una società repressiva il corollario di dolore che una soluzione del genere comporta.

I nostri consultori sono punti di riferimento per tante donne lasciate a sé stesse dopo una interruzione di gravidanza….

Un’altra considerazione è necessario fare, decisamente e chiaramente: il Direttorio interno della persona, il suo scheletro morale, i suoi valori, non hanno niente a che fare con le leggi dello Stato. È bene distinguere che qualunque cosa lo Stato permetta (o vieti) non corrisponde necessariamente ai dettami della coscienza e neanche a quelli della Chiesa.

In altri termini: la liceità legale non necessariamente corrisponde a quella morale per cui tante richieste di riconoscimento di diritti sono da considerarsi richieste di legittimazione legale ad uno Stato che (a giusta ragione) si definisce, ed è, laico, in virtù del mutamento dei tempi e, appunto, dei costumi.

Nel riaffermare come la battaglia etica sia fondamentalmente culturale, si deve però sottolineare come sia necessario considerare quanto ampie siano le ricadute di tali derive ideologiche. Si consideri ad esempio il fenomeno dell’abbandono degli anziani e il sempre più frequente ricorso a case di riposo, badanti, o addirittura ospedalizzazioni. Sembra che non ci sia niente di correlabile alla cultura abortista: ma se consideriamo le motivazioni dei due fenomeni ci accorgiamo che sono le stesse e reciproche. Ed ancora: se è legittimo l’aborto, cioè l’eliminazione di un individuo appartenente alla specie umana, in quanto, come si è detto, non soggetto, ma oggetto di diritto, ne è lecita anche la compravendita; quindi, perché non depenalizzare l’utero in affitto?

Ma, ancora una volta queste sembrano mere disquisizioni filosofiche: la realtà che viene sempre riaffermata e con la massima energia è la situazione di sofferenza individuale alla quale sembra necessario e improcrastinabile, porre rimedio, e qualunque prezzo sembra irrisorio per questo risultato.

Quindi le tante questioni etiche del nostro tempo sembrano avere un denominatore comune: l’evitamento di una situazione di sofferenza alla quale non viene riconosciuto alcun valore positivo.

E forse la sfida da affrontare è proprio questa… e i Cristiani sono chiamati ad accettarla.

Ovviamente questi spunti di riflessione non esauriscono la tematica, ma possono costituire un punto di partenza per un ulteriore confronto.

Dott. Francesca Iones

Equipe del Consultorio Diocesano “Famiglia Nuova” di Pozzuoli

[1] La motivazione del giudice è che la legge ”mette in pericolo i diritti delle donne, soprattutto considerando che la maggior parte non cerca l’aborto prima delle sei settimane. Nel vietare l’aborto una volta che il battito cardiaco è percettibile, la legge impedisce alle donne la possibilità di effettuare una scelta libera.”

Pubblicato in Eventi, Temi di riflessione

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